Sila, ovvero l’anima
Viaggio in mtb in 3 capitoli
Cap.1
I sentieri del cielo
Inseguo briganti. Voglio raggiungere le “Pietre”, il luogo dove si radunavano, seduti a cerchio sui massi, i “ribelli” di Calabria. Come gli indiani d’America durante i loro Pow Pow, Ercole mi racconta come essi usassero ritrovarsi periodicamente sul Volpintesta per discutere, contrattare e sfuggire agli sguardi indiscreti dei “piemontesi”, i soldati del nuovo regno d’Italia. Il terreno è accidentato, la bici sobbalza, davanti a me pedala agile Pino, questa volta senza le due ruote a motore. Ansimo per la fatica, mentre seguo il filo di parole che dicono di luoghi perduti nel tempo e nello spazio.
Mi ritorna alla mente il romanzo, I sentieri del cielo, di Luigi Guarnieri: «Catene di montagne intervallate da foreste, vallate e torrenti, paludi e cascate, gole e strapiombi, canyon e praterie, e pascoli e burroni e boschi e strani pinnacoli di roccia». È la Sila, la scotìa, la terra delle tenebre dove tutto è possibile. Anche di rimanere sorpresi per un settembre caldo e azzurro di luce. Abbiamo da poco guadato il fiume. I riflessi meridiani del sole sull’acqua cristallina lanciano lampi sui visi eccitati dei bikers.
Pedaliamo lungo l’argine del fiume per imboccare lo sterrato che si inerpica verso la vetta. Siamo nelle lande dei briganti. Il cuore della Grande Sila. Ercole ci guida sicuro per strade praticate fin da bambino. La tenuta della famiglia si trova in una delle aree meno frequentate dell’altipiano, nei pressi dello splendido laghetto di Ariamacina. Dieci chilometri ci separano da Camigliatello, ma pochi lo conoscono. Alcune ore prima, ad inizio escursione, solo l’aria fresca del mattino silano, allertando i sensi, ci aveva salvati da una enorme mandria di bovini transumanti che si era parata all’improvviso dietro una curva.
I guardiani non inforcano più i cavalli, ma potenti fuoristrada con cui conducono gli armenti lungo la stretta valle del fiume Neto verso le basse terre dello Ionio. Moderno e antico si incrociano negli sguardi pazienti e duri di questa gente di Calabria. Sono forse i discendenti dei feroci briganti di un tempo? Nuno osservava perplesso uomini e bestie. Chissà se nel suo Portogallo è mai esistita una simile genìa?
Ma ora eccoci qua, fatichiamo non poco nei tratti più aspri, ci toccano ancora diversi chilometri prima di arrivare alla quota dei 1800 metri. Altissimi fusti di larice svettano così in alto da farci apparire gnomi dei boschi, su ruote. Ercole mi racconta del nonno, amministratore di beni baronali, della sua segheria e dell’acquisto nel dopoguerra di terre feudali. Chissà se il barone venditore era imparentato con la famiglia Pietramala trucidata dal brigante Boccadoro? Il ricordo dei soldati spietati e dei briganti feroci aleggia nella mia testa. E i loro tesori? Chissà se non avesse ragione il padre di Ercole a cercarli lassù sul monte Volpintesta.
Ora spingo sui pedali dietro ad Enzo (a cui sarò debitore – per i freni sistemati – di questa immensa giornata), venuto fin quassù da Castrovillari, come Francisco, che con le sue parole mi distoglie da quegli uomini rudi che conoscevano a menadito questi luoghi impervi, circondati da spie, fiancheggiatori e da traditori. Saliamo, saliamo, la pendenza è forte, qualcuno rimane indietro. È Domenico, che si ostina a non allenarsi, ma è così caparbio da arrivare ovunque. Certo centocinquanta anni fa piemontesi e briganti non glielo avrebbero perdonata questa “leggerezza”. Da entrambe le parti non c’era pietà per nessuno. Dai, su, ancora uno sforzo, le tracce dei banditi ci conducono al loro rifugio, dove si arriva attraverso i “tratturi du cielu”, «percorsi abbandonati che solo i guerriglieri più incalliti sapevano ritrovare nel pieno dell’inverno».
La casa in rovina, una volta fortificata, ci guarda passare veloci in mezzo all’afrore di resine, muschio e bestiame, finché davanti a noi si spalanca la cima pratosa dell’antico raduno. Qualche sasso a ricordare la Storia, in basso l’altipiano di laghi, a destra e a manca il verde cupo dei pini, a perdita d’occhio, allora la mente rivive il tono delle stagioni calabresi, che era quello della disperazione, della sofferenza.
Era quello di uomini, donne, vecchi e bambini che conducevano le loro avvilite esistenze chiusi in misere capanne, insieme alle poche bestie che servivano a sfamarli. In quei villaggi sperduti sull’altipiano silano trascinavano le loro esistenze per sentieri, pascoli e mulattiere, dimentichi delle speranzose giornate della venuta di Garibaldi e delle sue promesse: la terra ai contadini e ai bovari. Onore e orgoglio erano le uniche cose che possedevano in abbondanza, insieme a vecchi archibugi, coltellacci, roncole e qualche revolver, che servivano a combattere contro i nemici del Nord, gli “stranieri”, impreparati a capire quella Calabria. Una terra misteriosa e incomprensibile, dove dappertutto erano i nemici, dove gli abitanti parlavano una lingua sconosciuta. Una terra magica popolata da arcane figure. Dove era difficile distinguere il vero dal falso, dove la diffidenza per le autorità e la violenza erano compagne di vita. Dei calabresi. Di allora e di oggi. Via. Il vento in discesa spazza ogni triste pensiero. Giù, la civiltà, i sentieri non corrono più verso il cielo, ma attraversano campi di patate, che al tramonto ci portano a casa.
Cap.2
Il sentiero della fede.
C’è una Sila sconosciuta, ancora misteriosa, che solo le persone del luogo possono conoscere. Quelli di Germano, almeno i più vecchi, sanno che su, verso Arnocampo, possono rintracciare vestigia di antichi luoghi, ormai perduti, dove ci si recava nei secoli passati non solo a seminare, raccogliere legna o allevare bestiame, ma anche per pregare.
La rugiada brilla sui prati di Zarella nella fresca e luminosa aria silana. C’è qualcosa di meglio di un buon caffè in questo mattino di autunno? Ercole ci accudisce premuroso prima della partenza. La casa degli avi, isolata nel cuore della Grande Sila, è la muster station adatta alle escursioni più particolari.
I boschi del Cupone e il laghetto di Ariamacina sono a pochi chilometri, eppure – per fortuna -risultano praticamente celati allo sguardo del turista, innanzitutto locale, che è coinvolto solo dalla vicina e volgare Camigliatello, dove gozzovigliare e lasciare rifiuti.
Eviteremo del tutto il borgo silano perché abbiamo intenzione di inoltrarci lungo la valle del fiume Neto per poi risalirne i bordi boscosi verso Serra Ripollata e Cozzo del Principe.
La luce è intensissima tanto da far risaltare ancor di più il verde dei prati e gli oscuri larici silani. Le nostre bici sono pronte, preparate a puntino, le catene e gli ingranaggi ben lubrificati, i freni a posto (le discese saranno ripide nei single track), le borracce piene, gli alimenti e i ricambi negli zaini. Le escursioni non devono mai essere sottovalutate, soprattutto quelle nel Gran Bosco d’Italia. È facile smarrirsi, o avere guasti ai velocipedi.
Partiamo in leggera discesa verso Germano, il vento frizzante ci frusta il viso, rimuovendo le ultime stanchezze notturne. Felici come ragazzini pregustiamo le sorprese che ci aspettiamo dalla sempre incredibile Calabria. Intanto costeggiamo il fiume Neto che ci scorre a lato con le sue acque cristalline, a volte lente a volte turbinose. Mandrie di bovini si inzaccherano pascolando sulle rive ombrose, mentre puledri scalcianti galoppano via al nostro passaggio.
Nulla è immutato in queste lande da quando decenni fa Giuseppe Isnardi scriveva: «L’autunno porta alla Sila, con le prime nebbie e i rapidi freddi crepuscolari, una novità che ne muta vivacemente l’aspetto. Il rosseggiare dei faggi in mezzo al nero delle pinete e quello degli ontani lungo il corso dei fiumi infiamma tutto il paesaggio».
Dopo una decina di chilometri Angelo ci segnala che è il momento di svoltare a sinistra perché dobbiamo prendere la stradina sterrata che sale nella fitta foresta.
La salita è dura, a volte sconnessa per il transito dei fuoristrada che hanno scavato crateri nel fango. L’acqua, caduta in abbondanza nei giorni precedenti, rende la pedalata a volte difficile, ma noi procediamo concentrati nel nostro passo abituale. Fabio va avanti e indietro, facendo la spola tra le nostre fatiche. Davanti ad un incrocio è costretto a fermarsi. Dove andare? Ci raduniamo per decidere. Passano i minuti quando da sinistra scende un uomo con un lungo bastone in mano.
È un escursionista solitario, un signore sessantenne di poche parole, antico nei modi e nel vestire, con un grande cappello, scarponi e calzoni di velluto. Ha le sembianze del buon pellegrino. E infatti ci indica la retta via. Una cosa ci tiene a sottolinearci prima di allontanarsi in fretta: “A circa tre chilometri incontrerete una casa diroccata, che accoglieva decenni fa suore di clausura. Vi si rifugiavano per pregare. Fatelo anche voi. Pregate”. Guardo le facce interdette dei miei compagni. Fuori da quel contesto avrei sorriso, ma ora non sembra il caso.
Ripartiamo in silenzio assorti nei nostri pensieri. Attraversiamo un grande prato dove a malapena si indovina il sentiero. Ci salva un segnale del Parco. Il tempo di rifiatare ed ecco sbucare dietro una curva un rudere. Sarà il rifugio delle suore? Tracce di fuoco sulle pareti mi fanno venire in mente però un’altra storia. E se fosse invece la cascina che nel 1863 bruciarono ad Arnocampo i briganti capitanati dal famoso Pietro Monaco e dalla sua compagna Maria Oliverio detta Ciccilla?
Il dubbio non si scioglie nemmeno quando dopo mezz’ora davanti a noi si para un’altra costruzione, più imponente, una tipica casa silana fortificata. Quale delle due è quella dove si ritiravano periodicamente le suore? Comunque sia, di una cosa siamo sicuri: bisognava aver coraggio a vivere in questi luoghi così selvatici. L’isolamento dei luoghi infatti alimentava furti e violenze. Oggi è malinconico residuo del tempo andato. Ci fermiamo pensando alle oranti isolate quassù per mesi. Il tempo sembra fermarsi.
La luce comincia a declinare, l’aria si fa più fredda, ci riscuotiamo e imbocchiamo il sentiero ora in breve discesa, ci infiliamo tra faggi altissimi. La strada dopo un po’ riprende a salire ripida, mentre una carica incontenibile di energia sprizza dalle nostre ruote carrarmato che si aggrappano al pietrisco come ventose. Trascorre circa un’ora, pedalo isolato in testa, quando da lontano noto nell’incavo di un albero una macchia bianca. Cos’è? Mi avvicino e d’istinto urlo: “Fermi! Presto, venite. Nel grande larice c’è una statua della Madonna. Chissà chi l’ha messa lì? Chissà…Risaliamo l’ultimo colle ed eccoci a Serra Ripollata.
Straordinaria visione: «Vista da un punto elevato, la distesa dei boschi che orla l’altipiano e che copre i fianchi delle valli apparisce tutta chiazzata di un rosso vivo che dà quasi un’illusione fugace di una nuova vita, ma che di giorno in giorno il cadere delle foglie attenua e fa scomparire, sino a che la prima neve viene a dare alla Sila l’aspetto invernale che conserverà sino a marzo e all’aprile, quando tutta la grande distesa delle erbe si risveglierà in attesa del risalire dal mare e dal piano degli uomini industriosi e delle loro greggi e dei loro armenti». (G.Isnardi, Calabria geo-antropica)
Cap.3
Sila ovvero la Scozia
Non ci crederete, ma pochi giorni fa pedalavamo in Sila praticamente a mezze maniche. Siamo nei pressi di Silvana Mansio, è l’ultimo mattino di novembre e ci troviamo davanti alla piccola stazione di S.Nicola sulla vecchia tratta Camigliatello-S.Giovanni in Fiore delle Ferrovie della Calabria.
Cosa tristissima, i treni non vi transitano più da anni, anzi, dei vagoni ci sono, ma sono ora utilizzati graziosamente come ristorante e non per viaggiare.
Hanno provato i nostri massimi dirigenti ferroviari e (soprattutto) regionali a ravvivare la linea anche con il treno a vapore per attrarre i turisti ma hanno rinunciato per “costi elevati e scarsità di viaggiatori”. Mah! Sono gli stessi che non riescono a risolvere il problema della frana che ha travolto qualche decina di metri di binario tra Rogliano e Soveria Mannelli. Il trenino che va a sud di Cosenza ora si ferma nel capoluogo del Savuto. Eppure i viaggiatori erano tanti dal catanzarese. Che dire? Si rimane basiti dalle possibilità inespresse della nostra regione. Una di queste è quella che ci apprestiamo a descrivervi. Il lago di Ariamacina quanti lo conoscono? Lì vogliamo dirigerci con le nostre biciclette.
Ottenuto sbarrando il fiume Neto, il lago è un piccolo invaso artificiale costruito per scopi idroelettrici intorno alla metà degli anni ’50 e come tutti i laghi della Sila è così ben integrato nel paesaggio da sembrare lì da millenni. Non esagero dicendo che è uno dei più bei luoghi della Calabria.
Francesca, ad esempio, non lo conosce, eppure è una donna che ha tanto girovagato per la regione; è un po’ timorosa delle sue forze (“Ce la farò a completare il giro di trenta chilometri?”). Mia moglie Gabriella, invece, è sicura di sé, sa di quell’angolo di Sila per averlo frequentato più volte, ed è già scalpitante sulla bici; Barbara appare incerta, forse non ricorda di esserci già stata con suo marito Enzo.
Guido il gruppetto di sei biker prendendo inizialmente la vecchia statale che corre parallela alla strada di grande collegamento Tirreno-Ionio. Discesa di un paio di chilometri in direzione località Righìo, poi prendiamo una stradina sterrata praticamente pianeggiante.
Il suono dell’assoluto silenzio si diffonde nell’aria insolitamente tiepida. Nonostante siano le 10 del mattino, a quota 1200 metri ci sono 18°. Incredibile. Chissà a mezzogiorno? Intanto pedaliamo in mezzo a prati e arativi di patate, sfioriamo boschi e recinti di animali, finché arriviamo ad uno dei classici cancelli per il controllo del bestiame (dopo aperti richiudeteli sempre, mi raccomando).
Ci fermiamo per ammirare un bell’esempio di casa fortificata silana. Erano costruite per resistere agli assalti dei briganti. Che bella! Un enorme cane nero, lì accucciato, ci guarda sornione, ma è meglio non fidarsi, ripartiamo subito, orsù. In fila indiana procediamo in leggera salita e ci infiliamo nel bosco di larici, abeti e faggi così fitto che ci impedisce ancora la vista del lago.
Dov’è? Dov’è? Svoltiamo una curva a sinistra ed eccolo all’improvviso ci si para davanti giù in basso. Le acque sono così immobili per mancanza di vento da sembrare una pista da volo. Circondato da foreste e sovrastato a est dai 1730 m. del monte Volpintesta il lago è così incantevole, da assurgere a moderno simbolo di quella pittoresca Calabria che tanto affascinava i viaggiatori del Grand Tour. Viene da pensare: “Meno male che lo conoscono in pochi”. Restiamo in meraviglia interi minuti.
Il lago di Ariamacina fa parte del Parco Nazionale della Sila, è oasi naturalistica importante per la presenza di uccelli migratori acquatici, addirittura è uno dei pochi luoghi italiani in cui nidifica lo svasso maggiore. Ci immergiamo pedalando in discesa nello splendore del lago, a breve distanza stormi di uccelli si levano decollando dalle acque. In testa con Gabriella non possiamo fare a meno di guardarci e commuoverci per lo spettacolo straordinario che ci si para davanti. Non abbiamo bisogno della postazione di birdwatching costruita per osservare uccelli che dovrebbero essere in Africa e ancora sono in Sila. Che fortuna!
Tiriamo avanti, seguendo lo sterrato che percorre la costa, superiamo una rete, aggiriamo un colle petroso e raggiungiamo il torrente Righìo. Una passerella instabile ci permette di superarlo, poi scaliamo un altro colle di massi granitici per poche centinaia di metri e ci lanciamo a capofitto in discesa verso il fiume Neto, guadandolo sulle bici. In quel momento sentiamo un rombo. Cosa? Tendiamo le orecchie e vediamo a distanza l’orrore: alcuni veicoli motorizzati a quattro ruote percorrono fastidiosamente i viottoli intorno al lago.
Siamo indignati ma impotenti, pedalando raggiungiamo un piccolo villaggio con una graziosa torre agraria adibita ad agriturismo, passiamo in mezzo alle case e, infine, ci fermiamo sull’ampia riva nord del lago. Ora l’Ariamacina si distende tutto davanti a noi. È impressionante pensare che siamo a pochi chilometri da Camigliatello, eppure così lontani dal mondo civile. Angelo rincuora Francesca, triste perché il giro sta terminando, ma è contento perché lei ha dimostrato carattere. Da poco in mountain bike ha saputo superare prove difficili. Ecco ora la diga, poi la riva orientale, che ci danno modo di salutare quel luogo stupendo, infine volgiamo al lago le spalle e, oplà, l’ultimo strappo e siamo alle auto.
Tra qualche giorno la neve comincerà a cadere abbondante e ci vorrà primavera per ripercorrere l’Ariamacina e l’intera Sila in bici. Trascorrerò l’inverno pensando alle parole di Norman Douglas scritte all’inizio del ‘900 sulla Sila: «Se non fosse per la mancanza dell’erica con le sue caratteristiche sfumature violacee, il viaggiatore potrebbe credere di essere in Scozia. Troviamo lo stesso piacevole alternarsi di boschi e di prati, gli stessi enormi massi di gneiss e granito, la stessa esuberanza di acque vive». Come lo scrittore vorrei stupirmi di continuo della mia terra e guardarla con l’occhio dello straniero per non dimenticare mai il tesoro che noi calabresi possediamo e che di continuo dilapidiamo.
Pierluigi Pedretti