Non solo io mi sono avventurata nel Pollino cosentino per bere un vino particolare. Già nel Cinquecento, il moscato di Saracena era fatto partire da Scalea con le navi così da poter arrivare sulla tavola imbandita della corte di Papa Pio IV. Si narra che Guglielmo Sirleto, cardinale custode della Biblioteca apostolica vaticana, ne fosse molto goloso. Nell’Ottocento il moscato di Saracena gode di grande splendore e viene citato in molti trattati enologici. Di lì a poco, però, ha rischiato di sparire ed è solo grazie alla determinazione dei cittadini di Saracena se ancora oggi viene bevuto.
Il moscato si ottiene dalle uve malvasia e guarnaccia alle quali si aggiungono piccole percentuali di uva “adduroca” e di moscatello di Saracena.
Il tutto viene vinificato seguendo antiche tradizioni che prevedono la bollitura del mosto ottenuto dalla pigiatura dell’uva malvasia e guarnaccia al quale si aggiunge poi quello ottenuto dagli acini essiccati di moscatello che vengono attentamente selezionati e sottoposti ad una leggera pressatura.
Alla fine della fermentazione il prodotto finale è un vino ambrato e molto profumato con un sentore di fichi secchi e frutta esotica, di mandorle e miele.
Grazie alle tradizioni familiari questo vino è riuscito a riemergere avendo così l’opportunità di poterlo gustare ancora oggi. Ogni volta che ne bevo un sorso penso o racconto con piacere della mia visita nel Pollino, a Saracena.