In realtà, ricordo alla perfezione il giorno in cui conobbi Elvira. Io e due miei amici molto stretti ne parlavamo da tempo, sembrava quasi trasudasse un certo odore di “novità”, nell’aria. Stavo mettendo i soldi da parte da diverso tempo e decisi che il fine settimana appresso, saremmo andati tutti e tre insieme a vederla. Inizialmente ero molto indeciso sul sesso e sulla razza, avevo già avuto un maschio e mi aveva procurato, oltre a immense gioie e indiscussi momenti di spensieratezza, come solo un cane leale al proprio padrone riesce a fare, anche parecchie beghe non troppo semplici da riuscir a risolvere. Perciò, viste le antecedenti esperienze, optai per una cucciolina.

Ero molto indecisa sulla razza poiché il mio vecchio labrador non sarebbe mai potuto venir rimpiazzato, né dalla medesima razza né da un’altra. Non avevo bisogno di un cane, in realtà, e fui molto razionale anche su tale decisione. E pur non sentendone il bisogno, seppur il mio cervello continuasse a negarlo, il mio cuore carpiva la necessità di vivere a stretto contatto con un cane. Diedi retta al cuore, come molteplici volte fatto in vita mia, spesso errando. Chiesi consiglio anche ai miei amici, i quali magari da esterni sarebbero riusciti a dare un giudizio un po’ meno offuscato sulla razza di cane che più mi si sarebbe potuta addire. Dopo miliardi di battute, di perdite di tempo e farneticamenti vari sul da farsi, consacrammo tutti e tre a pieni voti per un cane da guardia. L’idea mi balenava in testa da un po’, ad esser sincero, ma avevo sempre fatto in modo di farla rimbalzare il più lontano possibile. I cani da guardia sono i cani più tosti da gestire, in più non avevo lo spazio per poter tenere in casa un Dobberman o un Dogo Argentino. Venne fuori questa unica pecca, che fortunatamente, Rikkardino, uno dei due amici stretti li presenti, scacciò via con due parole:” PASTORE BELGA”. Rimasi un attimo interdetto, a esser sincero; era una razza che allora conoscevo poco, seppur la trovassi molto affascinante. Il Malinois nasce come pastore, ma col tempo è diventato un cane polivalente, che sia per la difesa, la guardia, il riporto e soprattutto come arma per i carabinieri cinofili. È un cane molto fedele al padrone, attaccato quasi visceralmente ad egli. Tenace di carattere, abile ed agile fisicamente. “Praticamente porti fuori una Glock al guinzaglio”, fu il primo pensiero di tutti.

Vi erano altri fattori da tenere in considerazione, quali lo spazio e il tempo necessario da poter dedicare al cane. Un cane molto attivo ed energico, il quale ha bisogno di scaricarsi in continuazione.

Altro fattore da dover tenere in considerazione.

Dopo brevi parentesi sempre per decidere il da farsi, optammo per il beccarsi al circolo sabato al tocco, che qui a Firenze sono le una del pomeriggio. L’allevamento era nel Mugello, non ricordo quale fosse di preciso il paese ma se non erro eravamo alla Ronta. Era una giornata di metá maggio a dir poco mozzafiato, col sole che ci puntava il viso e un venticello fresco e leggiadro che ci accarezzava la pelle. Il viaggio in macchina tra musica, canne e le solite cazzate voló come il vento. Lavoravo tutti i giorni, e solo ed esclusivamente per godermi quei piccoli momenti di libertà. In cui ti sentivi in grado di cambiare il mondo, anche da un piccolo quartierino grigio di periferia. Arrivati la, vennero i proprietari dell’allevamento a presentarsi ed a farci entrare nel posto, il quale, ci fece rimanere tutti e tre a bocca spalancata. L’allevamento era una distesa di verde immensa, in cui ogni cane correva libero come fosse selvatico. Appena arrivammo circa 5 cani ci saltarono addosso e ci finirono dalle leccate, cosa che fece stringere il cuore di tutti e tre. Loro furono più “duri”, affermando che l’unico ad andare in fibrillazione fossi stato io. Mai cazzata fu più grossa, specie quando li vidi sorridere a 32 denti accarezzando qualsiasi bestiolina passasse per i loro dintorni. Ci presentarono la nuova cucciolata, e fu lì che la vidi.

Era la cucciola più bella e più taciturna.

Fu la prima a venirmi incontro, e con un rantolio secco, quasi a mo di monito, pareva fosse stata ella a scegliermi. La presi in collo e il cuore cominciò a pompare leggermente più forte, i palmi delle mani si fecero più scivolosi, il respiro leggermente più affannato. La cucciola mi guardò e mi riempì di baci per 5 minuti abbondanti. I miei amici avevano già capito, proprio da lì nacque la storia di “Elvira”.

Paolino, l’altro mio amico presente, si avvicinò a me ed alla canina che tenevo in collo, e fece per darmi una pacchina.

La canina, d’istinto, si girò verso di lui e comincio a ringhiare, per poi abbaiare con tutta la forza che teneva in corpo.

Paolino mi guardò, stupito, ed esclamò: “L’unico nome che puoi dare a questo cane è Elvira!”.

Mi fece sorridere quell’espressione, sbloccandomi un ricordo.

Essendo sia io che Paolino fissati sin da giovanissimi con Scarface e con i gansta movie, avevo deciso di appendere in camera mia un poster, quale pensavo fosse a caratteri cubitali quando lo ordinai ma che arrivò molto più piccolo di quanto immaginato, raffigurante Tony Montana con il sigaro in bocca. E di fianco, con caratteri altrettanto giganteschi, la scritta “SCARFACE”. Inutile dire quanto poi oggetto di scherno fu quel cazzo di poster. Ci ridevamo spesso su, era un aneddoto divertente. Elvira è il nome della donna di Tony Montana nel film, interpreta da Michelle Pfifer, bella come il sole. L’associazione per Paolino, dopo il gesto del cane, fu rapida e semplice. Mi convinse seduta stante quell’epiteto, che da soprannome subito divenne nome. Non ero stato io a scegliere il cane, bensì la bestia a scegliere me. La posai in braccio prima a Rikkardino e poi a Paolino, i quali divennero subito ufficialmente gli “zii” di Elvira. La questione mi fece sorridere, e così tutti e 4 salimmo in macchina per tornare verso casa. Mia madre quando la vide mi rincorse per tutta casa, dato che come al solito la mia testardaggine era riuscita a contraddistinguersi. Più volte mi aveva accennato su quanto fosse piccola la casa, su quanto tempo e spazio ci sarebbe voluto per un altro cane, specie uno da guardia. Ed io, come al solito, preferii fare di testa mia. Dopo la confusione iniziale, mia madre prese in braccio la canina e cominciò a coccolarla. Le mancava il nostro vecchio cane, riuscivo a carpirlo, spesso la vedevo triste. E dopo il tentennamento iniziale mi strinse forte tra le sue braccia, quasi le avessi fatto un regalo. La mamma è sempre la mamma, e sono poche le cose che riescono a soddisfarmi come regalarle un sorriso. Mia madre è fatta così, tanto impulsiva quanto buona. E credere che sia ingenua è un errore madornale. Oltre a sottovalutarla, perdi anche quella parte meravigliosa che si cela sotto quella maschera. Quello dell’aiuto verso il prossimo. Ha il vizio di dire sempre di sì, ma capisce sempre quando una persona se ne sta approfittando. Mia mamma per me è un po’ come un supereroe, seppur io riesca molto bene a non darlo a vedere. Mi ha sempre capito con uno sguardo. Ha sempre capito tutti con uno sguardo.

È una grande lavoratrice e la persona più onesta che abbia mai conosciuto. Peccato che non abbia preso da lei tale caratteristica, mia madre per me è un mito in questo. Furono anche questi i pensieri che mi attraversarono l’encefalo, in quell’istante. Una scena unica,sarò sincero. La canina ricambiava ogni coccola o carezza di mia madre, che sembrava già star iniziando a farla obbedire. Dopo un paio d’ore decisi di portare la new entry a fare un paio di bisogni e nel mentre arrivò anche Emma, la mia ragazzina di allora. Vorrei poter fare una descrizione dettagliata, ma non mi viene molto semplice parlare di ella. È finita malino e non passa giorno in cui io non pensi a lei. Ora sta con un altro ragazzo, il quale tra l’altro credo sia il suo ex. Ci sono molte che mi ha nascosto, ma anche tante che io ho nascosto a lei. Ma non solo a lei, forse a tutti. Sono molto introverso e odio narrare qualsiasi cosa, specie a una persona del sesso opposto, che potrebbe compromettermi. Ci sono cose di me, come tutti, che sa solo me stesso. Chi dice che non ha niente da nascondere mente, ed anche spudoratamente. Credo di essere tra questi anche io. Sbagliai, sbagliai tante volte con lei. A non dirle la verità, ma anche a darla per scontata forse. In fondo io non dipendevo da lei, ma da una sostanza, che sarebbe il THC. Specie quando la frequentavo fu un periodino di straordinario abuso. Mi rendevo conto sempre di non litigare con lei, ma con me stesso. In fondo tutti i suoi dubbi erano leciti, assai meno comprensibile il mio perenne e continuo sorvolare il problema, perché infondo “c’ho tutte le canne che voglio chi m’ammazza”. Questo spartito suonava in testa puntuale come uno jaeger le coutre, ogni volta che sorgeva fuori qualche questione. Io, come se annuissi, lei che invece cercava di toccare i tasti giusti per farmi innervosire. Finiva sempre con qualche lacrima o con qualche urlo. Non mi piace trattare male le persone, ed odio toccare tasti dolenti. Non sono nessuno io per continuare ad infierire sul latte già versato. Non tutti la pensano così, ed io, piuttosto che controbattere ad ogni “tossico di merda “(per due canne poi, roba da pazzi) continuavo a fare ciò che la infastidiva, ma senza ferirla ulteriormente. Tante volte cercai di spiegarle, vanamente, che tutto dipendeva dai modi. Avrei fatto un tentativo volentieri, se lei magari avesse chiesto di calmarmi un attimino. Apro una piccola parentesi, fumava anch’essa, ma molto meno di me e due tiri tanto per farli. Tante volte ho avuto l’opportunità per scagliarle contro questo piccolo paradosso, ma ho preferito sempre tacere. Lo sapeva bene anche lei che la predica proveniva da un pulpito assurdo, ma si ostinava egualmente a provocarmi. Bene o male riuscì quasi sempre a controllare le mie emozioni, evitando di farfugliare racconti scomodi. Credo lei fosse, e ancora sia, anche se mi auguro di no, piena di traumi. Cresciuta in una famiglia benestante, quasi abbiente, ed adottata a 5 anni dalla Cambogia. Credo ricordi dei suoi veri genitori, ho sempre sorvolato sulla questione. Non mi sono mai permesso.

È bella come il sole. Alta ma non troppo, scurina di pelle, gli occhi quasi a mandorla di color nocciola, capelli lunghi e un sorrisone niveo sempre stampato sulla faccia. Lei camminava sempre dritta e composta, io invece sempre imbronciato a testa bassa. Era buffa perché provava a mettersi i tacchi pensando di riuscire ad essere più alta di me, ma perennemente rimaneva più bassa. E quando succedeva sbuffava un paio di minuti, canticchiando la consueta filastrocca:” non è giusto”. Dopodiché si fermava, mi mirava negli occhi un paio di istanti ed esclamava, a gran voce:” ma lo sai che mamma Barbara ti ha fatto proprio bene si?”. Poi mi sorrideva e mi scoccava un bacino timido, quasi a mo di carezza. E quando ciò succedeva, sentivo il mondo scomparire piano piano scomparire intorno a me. Rimanevo io con lei, e quel mattone sulla bocca dello stomaco evaporava in un attimo. Non era mai banale. Ricordo bene una sera, la quale rimase a dormire da me; la mattina io dovevo andare a scuola, lei, invece, pur avendola già finita, prendeva egualmente il bus insieme a me, con meta   la stessa direzione, cioè il centro. Io andavo a scuola lì vicino, lei abitava lì, poco distante. Da casa mia al centro in bus sarà una mezz’oretta abbondante, forse anche di più. Ci prendemmo un po’ in giro sul fatto del biglietto, dato che io salivo sempre rigorosamente privo di ciò, ed essa al contrario sempre munita. Le piaceva rispettare le regole, diceva. A me piaceva infrangerle, come tanti. La rassicurai sul fatto che il controllore non si fosse mai visto, e la convinsi a non perdere tempo per andare al tabaccaio, piccola sosta che probabilmente ci avrebbe fatto perdere anche il bus. Eravamo di buon umore, poi aveva voluto fare due tiri anche lei, di prima mattina alle 7, cosicché l’euforia si trovasse alle stelle. Arrivati in centro, magicamente, salì il controllore due fermati prima della nostra discesa. Cambiai viso, seppur mi scappasse da ridere. Non avevo i soldi né per pagare la mia multa né la sua, e mi sentii quasi congelato, intrappolato in una sensazione di angoscia assai intensa. Di me ne sarebbe importato il giusto, non l’avrei pagata quella multa, o avrei trovato i soldi per andarla a pagare direttamente in comune. Mi dispiaceva per lei, l’avevo convinta io, lei non voleva e le ho fatto anche prendere la multa.  Come Aprii bocca per chiederle scusa, mi baciò a stampo e tirò fuori il portafoglio. Pagò prima la mia multa e poi la sua. Ad essere sincero, non mi era mai capitato prima, e non ricapitò dopo. E non parlo di lei, ma delle altre persone. Non che fosse ordinaria come situazione, ma mentirei se dicessi che vi sono stati occasioni simili in cui ciò accadde. Non rimasi colpito, direi pietrificato. Mi spiazzò, e quando scendemmo mi sorrise. Mi sciolsi come di consueto ma rimasi razionale, volevo ascoltarla. Disse che la scena le aveva fatto ridere e che anzi, era quasi dispiaciuta di averla pagata al colpo mio, non voleva mettermi a disagio, sapeva che non avevo entrate fisse e che i soldi in quel momento non erano una costante, in casa mia. A me scappò quasi da piangere, e l’abbracciai con tutta la forza che avevo in corpo, tanto che dopo 5 secondi sentii berciare:” Piano così mi fai male”. Mi fece commuovere pensare quanto fu naturale quel gesto per lei, senza pensarci mezzo secondo. Tale azione rimase impressa nel mio cuore, e non solo. Volle dire tante anche al mio cervello. Realizzai del bene che mi voleva quella figliola, ma anche che forse non ero in grado di riceverlo. Quel giorno decisi di rimanere con lei, i suoi lavoravano tutto il giorno e mi diceva spesso che da sola si sentiva triste. Non lo feci per ricambiare, lo feci perché mi andava di stare con lei veramente. Della scuola me ne fregava anche il giusto e l’onesto, per un giorno non sarebbe morto nessuno. Rimanemmo insieme tutto il giorno, a guardare film, a mangiare a fumare e a fare l’amore. Ogni volta era bello come la prima, perché lo facevamo insieme. Era come condividere qualcosa, due corpi che si intrecciavano alla perfezione. Io l’ho amata con tutto l’amore che ho avuto in corpo, che forse non era abbastanza. Sono tanti i rimpianti, inesistenti i rimorsi. È tutto ció che non ho potuto fare che mi rimane appigliato in gola, come un amo. Di quanto non ho voluto insistere quando se n’è andata, di quanto la mia concentrazione sul lavoro fosse diventata a tratti subumana, di quanto manca anche ad Elvira.

Si conobbero poco dopo che la presi, e legarono subito. Emma adorava Elvira e viceversa, tant’è che quando eravamo insieme, facevo tenere il guinzaglio a lei. Con me era sempre molto agitata, tranne la sera in cui percepiva la mia stanchezza ed evitava di tirare. Con Emma invece al contrario, non tirava mai in nessuna circostanza. Essendo un cane molto affine all’addestramento, seguiva al mettere tutto ciò che io, ma soltanto io, le dicevo. Con Emma stessa identica cosa, ma solo con essa. Non so cosa sentisse il cane, non so quale sorta di percezione arrivasse ad Elvira. Forse il legame che ci univa, o forse sentiva di potersi fidare. Quando la portavamo al circolo Rikka e Paolino saltavano come grilli, era diventata una sorta di mascotte per il quartiere. E spesso e volentieri i miei amici mi facevano notare quanto il cane fosse in sintonia anche con Emma, una cosa troppo palese per non essere notata. Dicevo sempre loro che era meglio così, l’avrebbe difesa da tutto. Difatti bastava avvicinarsi più del dovuto ad Emma che Elvira iniziava ad abbaiare seduta e composta, a mo di sfinge. Bastava un fischio per farla calmare, ma qualora non avesse sentito il fischio, in caso di necessità Elvira ti sarebbe balzata al collo con una stretta formidabile. Emma non c’è più, o meglio non la vediamo più. Io come già detto penso sempre a lei, ed Elvira forse nel profondo, seppur non riesco a leggerlo, anch’essa sente delle mancanze. Di quando io dormivo fino a tardi e c’era Emma a badare a lei. Di quando tornavo tardi da lavoro e lei passava per portarla fuori e stare con lei. Dispiacque anche agli amici, quando finì. Le volevano bene, erano entrati in confidenza. Rikka per alcune questioni le chiedeva anche dei consigli. Per questo mi piace pensare che quando Elvira è di buon umore è perché lo è anche Emma. Fortuna è che la vita va avanti, Elvira cresce, io anche. Di irrisolvibile c’è solo l’aldilà, e finché non sono solo posso continuare a correre. I ricordi rimangono ben incisi sottopelle, e la speranza pure. Mi manca, ma passerà. Io non so chi sono, ma mi vedo sotto di me. Ora posso osare, posso rinascere. Il futuro non è limpido ma so di poterlo colorare in qualche modo. La strada è tutta in salita ma so di poterla attraversare in qualche modo. Sono io che mi do la forza, io che guardo il fondo e risalgo. E più mi vogliono trascinare di nuovo in basso più rimango saldo verso la salita. Una volta arrivati ritoccheremo il fondo e risaliremo, come ogni volta.

Mi piacerebbe farle vedere che resisto, che non mollo un centimetro. Che le difficoltà si moltiplicano e il mio essere perpetuo, persevera nel dimostrarsi un abile quoziente. Ed anche se ti vedo in centomila volti, vedo chiaro e limpido dinnanzi a me. Tu non ci sei ma ti sento. Dentro di me, che mi guidi. Che mi porti a rimirar le stelle, col tuo respiro che ansima su di me. Sento le tue mani, i tuoi capelli ed il tuo odore. E qualora mi trovassi perso, sperduto, di nuovo sull’orlo del lastrico, di nuovo sul filo del rasoio, non temerei alcun male, perché tu sei con me.

𝑀𝑖𝑟𝑐𝑜 𝐵𝑜𝑛𝑐𝑖, 𝐹𝑖𝑟𝑒𝑛𝑧𝑒.

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