Capitolo I
«Recupera il mio Scrigno, ti prego! Se il mio Scrigno resterà Violato e perduto non troverò mai marito».
Agata si svegliò sudata e con il cuore che batteva all’impazzata. Erano ormai sette notti che questo sogno la rincorreva e non ne comprendeva il significato. Sapeva che ancora una volta era poco più che l’alba e, stanca e infreddolita, si mise lo scialle di lana e andò ad accendere il fuoco.
Striature rosa e verdi si intravedevano fuori dal quadro della finestra. L’immobilità del mondo e la serenità sembravano una certezza in quel cielo. Le ricordavano un passo del Vangelo ma non ricordava quale. Il fuoco scoppiettava già quando Agata mise gli stivali e uscì fuori, accarezzata dalla rugiada, a raccogliere acqua dal pozzo. Avrebbe dovuto fare il bagno a sua madre e preparare il pranzo. Le galline chiocciavano giulive attorno agli alberi da frutto, la terra si era finalmente asciugata dalla nevicata invernale e timidi sprazzi d’erba si affacciavano al sole di marzo. Quel tempo di rinascita Agata lo preferiva in assoluto, la lentezza, i profumi dei fiori e il ritorno degli uccelli. Tutto creava un’orchestrale armonia che le dava pace e speranza. Riempì i secchi, a uno ad uno, e li mise sotto la balaustra per proteggerli dallo sporco, coprendoli con un lungo lenzuolo bianco. Le venne in mente che in quel dì una comitiva di prestanti giovani in fibrillazione si sarebbero recati nella piazza del paese a fare le offerte per le donne che volevano condurre al giogo. Chi accettava si ritrovava portato in spalla alla prima chiesa madre e gravida dopo nove mesi. Dalla sua vallata, una delle poche in quel borgo, Agata guardò le case arroccate lungo il crinale e immaginò le sue coetanee già pronte nelle vestaglie di seta, con l’acqua di rosa tamponata a più mani lungo ogni lembo di pelle, trepidanti in attesa del primo bue con qualche ettaro di terra e una carrozza. Era il ratto della Vergine e Agata lo trovava più sconveniente dell’odore del prete. Lo stesso che celebrava le nozze dei poveri castrati adolescenti. Mentre pensava a tutto questo, certa che sarebbe fuggita pur di non sottoporsi a tanto scempio, un tonfo la risvegliò e riportò alla realtà. I suoi stivali sprofondano nello sterco e una serie d’impronte si dipanavano attorno a lei. Impronte piccole di cerbiatto in fuga.
Agata si inoltrò nella radura dei pioppi dove sua madre l’aveva messo al mondo otto mesi dopo la notte del ratto, sola e abbandonata anche da lui. Da allora la follia aveva divorato la sua semplice mente ed era rimasta così ingenua da necessitare di ogni cura.
«Aiutami».
Il cuore di Agata balzò dalla sua sede, giù fino in gola e ritorno.
«Aiutami».
Dai cespugli di ortensie si allungava un’ombra tremolante, da quelle piante che significavano diffidenza proveniva una voce rotta e fanciullina. Scostò i suoi capelli dietro l’orecchio, come faceva sempre quando era nervosa e si avviò cauta, lentamente:
«Chi c’è?».
«Sono qui» da dietro i cespugli uscì qualcuno tremando. Poteva percepire i suoi denti sbattere e produrre scosse sussultorie sul mento e le spalle. Lenta, si affacciò una ragazza dai neri capelli arruffati, l’abito stracciato le scopriva la pelle chiara fino alle clavicole. Agata la sostenne e quella si rialzò incerta. Senza pensarci, la condusse dentro casa. Chiuse con i chiavistelli della porta e abbasso le pesanti tende polverose. Controllò il sonno di sua madre e si assicurò che non le sentisse, poi si rivolse alla giovane:
«Cosa ti è accaduto?»
«Non posso parlarne, non ancora».
Accettò il suo silenzio e immaginò presto di cosa si trattasse. Affettò il formaggio e scaldò delle uova, prese l’olio ai pinoli e lo sparse caldo sul pane. Porse il cibo alla donna che, quasi sorridendo, sbocconcellava il pane e sorseggiava il vino zibibbo. Quando ingoiava faceva un ghigno, la gola graffiava a ogni sorso. Le porse il miele dorato e accese un calderone per bollire l’acqua e farle un bagno.
«Grazie» disse, mentre il miele leniva il suo dolore. Quello del corpo… l’altro sarebbe stato più difficile da curare. «Sono Agata, qui sei al sicuro».
«Beatrice».
Capitolo II
Le insaponò per diversi minuti le spalle e Beatrice si sciolse, chiuse gli occhi e canticchiò a bassa voce una ninna nanna. Stava quasi per addormentarsi quando di colpò riaprì gli occhi e strinse così forte le mani di Agata da conficcarle le unghie nella pelle.
Gli incubi non l’avrebbero lasciata andare Agata rifletté se darle del latte di papavero per dormire, quella notte. Avrebbe voluto stringerla a sé.
Il suo corpo era bello; anche se ancora acerbo, il suo seno guardava fieramente all’insù, tra i lividi si intravedeva una pelle di pesca, mai sforata, ora percorsa da brividi. Agata l’abbracciò con un telo e la condusse al fuoco. Aveva gambe esili e fianchi prominenti da ricordare un’ampia cesta di melograni maturi e succosi. Tutto il suo corpo era fatto per essere esaltato, venerato, con oli e sete.
«Sai, ho sognato per sette notti una donna che chiedeva aiuto»
«Per sette notti sono entrati e usciti da dentro il corpo, come fosse un tempio».
«Mi dispiace… è così ingiusto che non siamo abbastanza forti da difenderci».
«Oh, sì che lo siamo. Uno di loro conserverà a lungo quella ferita, un altro potrebbe anche essere morto se i suoi arti sono andati in cancrena. Un altro ancora è rimasto senza i suoi adorati sacchettini mosci e spelacchiati. Gliel’ho portati via con queste mani».
I suoi occhi lucidi erano iniettati di sangue e non smetteva di tremare. Agata le strinse le mani, complimentandosi, e si volse, ricacciando indietro una lacrima, a cercare gli strumenti per la toeletta. Le pettinò i capelli avendo cura di districare i nodi ma sembrava impossibile. Era come se Beatrice avesse racchiuso tra ogni ciocca di capelli una stilla di rabbia e una gemma di dolore, per farne trecce disordinate di vendetta. Stette in silenzio mentre faceva questa operazione pensando alla brutale violenza subita da quella piccola donna ma lei interruppe i suoi tristi pensieri:
«Devo averti cercato nei sogni»
«Attenta a ciò che dici, potresti bruciare viva per questo»
«Facciano pure ciò che vogliono al mio corpo! Devi capire che abbiamo un potere, il potere di Madre Terra, del sangue, della creazione!»
«Siamo qui povere e sole, a leccarci le ferite… capisco il tuo stato d’animo ma dubito sia vero ciò che dici. Siamo solo la costole di quei bruti».
«Siamo le madri e il coito di quei bruti, possediamo la loro essenza. Tu hai il potere!»
Dei rumori le distrassero. La madre di Agata si era svegliata affamata e chiamava cantilenante dall’altra stanza. Lei si scapicollò a portarle da mangiare e a informarla della presenza di Beatrice. La spacciò per una cugina dal continente e lei le credette.
Le donne fecero le pulizie, amministrarono i coloni che portavano i raccolti dal campo e imbandirono la tavola per i lavoratori, fecero le pulizie, il bucato, rassettarono nelle stalle e diedero da mangiare agli animali, fecero un tuffo al fiume e risero quasi felici, ammassarono il pane per l’indomani e finirono stanche sul giaciglio di paglia nel soppalco di legno, con il fumo del camino dalle foglie di eucalipto ad addensare l’aria di odori silvestri e sogni.
Prima di mettersi a letto Agata suonò il suo flato di Pan e Beatrice, rapita, respirava piano. Si sdraiarono e presto, più vicine del consentito, dormirono scambiandosi il fiato.
La mattina successiva trascorse come il giorno prima e così molti altri a seguire tra confidenze, vicinanze e maggior fiducia. Beatrice cucinava benissimo e le serate, sempre più calde, trascorrevano serene e balsamiche per gli animi, tra un pasto caldo speziato, un vino forte mesciato con fiori e chiodi di garofano e letture di poesie.
Erano ormai buone amiche anche se non si parlava mai dei genitori, nessuno, d’altronde, era mai andato a cercarla e lei non faceva cenno di muoversi. Non si spostava che tra la radura all’argine del fiume ma, a qualche miglio dal ponte, dirottava lo sguardo, come se il paese non fosse raggiungibile, anzi, non esistesse. Agata le lasciava il tempo necessario tenendo al suo bene sempre di più, così tanto che quando le era vicina sentiva qualcosa solleticarle l’ingresso dello stomaco e brividi mai provati sferzarle la schiena.
Ebbe la prova che qualcosa stava modificandosi tra di loro e soprattutto cambiando dentro di lei quando provò vergogna al fiume, una mattina caldissima di maggio. Mantenne gli indumenti intimi e si tuffò con grazia pudica. Beatrice, che era tornata solare e sorridente, le schizzò gocce d’acqua salmastra prendendola in giro e gettandosi tra le sua braccia.
Agata la guardò e affondò nei suoi occhi bruni. Non si era mai accorta che la sua lingua faceva uno strano ballo nella bocca per pronunciare certe lettere. E quelle fossette? La frangia troppo corta sulle tempie rilassate e i lobi delle orecchie coperte da piccole stanghette di metallo.
Era bella.
La sua pelle opalescente sembrava un diamante: il sole e i riflessi giocavano su di lei, danzando sul suo corpo, accarezzandole i confini e le curve.
Voleva diventare acqua per fluirle dentro, lenta, goccia a goccia.
L’atmosfera cambiò, come polarizzata improvvisamente, e l’aria vibrò attorno a loro.
Beatrice non ebbe paura quando Agata si soffermò troppo a lungo sul suo corpo bagnato nel tentativo di inseguire la luce iridescente attorno ai suoi capezzoli. Beatrice la guardò intensamente e Agata si sentì autorizzata da quello sguardo a continuare nella sua esplorazione, prima immaginifica, poi pratica.
Il suo cuore faceva dei salti mortali, intimando di arrestarsi a ogni centimetro in più che le sue mani sfioravano. Le carezzò lentamente le cosce, i glutei, i fianchi, le spalle. Omise il fulcro floreale del suo desiderio e le cinse il collo, sollevando lo sguardo estasiata per leggere un diniego o un assenso, una condanna o una preghiera.
«Ti prego!».
«Ancora una volta ti ho sentita nella mia mente!»
«Se mi senti» disse lei avvicinandosi al suo ventre e stringendole la vita: «se mi senti, fallo…».
Agata ebbe la sensazione che se avesse ceduto a quella tentazione non sarebbe più riuscita a tornare indietro. Immaginò che tutto sarebbe cambiato ma che molti pezzi mancanti avrebbero finalmente assunto il loro posto e tutto si sarebbe chiarito.
Le sfiorò il viso portandole i capelli dietro l’orecchio, annusando a fondo il suo collo. Odorava di muschio e fiori di campo. La sua pelle era così liscia da sembrare velluto.
Beatrice si avventò sulle sue labbra, disegnandone il contorno con le sue. Erano morbide e setose, carnose. Ogni tanto si fermava, le sorrideva e continuava a posare la sua bocca sulla sua, nel bacio più casto. I loro corpi divampavano e furono tenuti in silenzio ad implodere.
La razionalità ebbe la meglio su Agata che si svegliò dal torpore eccitante della braccia di Beatrice quando nella sua testa balenò l’immagine di porci imbizzarriti rotolare le vasche del mangime e inzozzare tutto. L’immagine disturbante l’allertò e volle recarsi a casa, di corsa, ancora bagnata, mentre Beatrice, con un piede ancora nudo la seguiva, inebetita, rivestendosi.
Capitolo III
La vecchia era seduta davanti il camino. Rimestava una zuppa in un coccio da cottura e cantava stralunata una nenia nel suo idioma stretto di montagna.
Era ancora bella anche se non dava alcuna importanza al suo aspetto. Cantava battendo il tallone sui mattoni nel camino. Stille di polvere si sollevavano turbinando. E poi tornavano a posto. E poi tonavano in aria, in un contrappasso eterno di movimento.
Fuori i cavalli nitrivano imbizzarriti ma alla vecchia non sembrava importare nulla del rumore del mondo reale. Doveva interrogarsi se gli uomini erano fatti solo di polvere o d’acqua. Non si accorse nemmeno quando il soldato ubriaco sfondò la porta, sfregandosi il sesso indurito.
Non si accorse quando si avvicinò al tavolo, ruttando, emettendo uno strano fischio mentre respirava.
Solo quando lui fu su di lei, barbaro, a sollevarle la gonna e metterla giù come una cagna, stringendole le reni e spingendola con la testa nel caminetto, che già poteva udire l’odore dei suoi capelli prendere fuoco.
Il primo colpo del suo sesso la lasciò senza fiato.
Si era dimenticata di possedere un ingresso; ora veniva brutalmente divelto da un ariete villoso. I suoi movimenti erano lenti, frenato dal vino ottenebrante.
Non riusciva ad opporsi, Viola, tanto era il suo immane dolore. Pensò a suo marito, alla sua morte, alla sofferenza che provò quando si spense qualche giorno prima della nascita di Agata. Ricordò la dolcezza delle sue mani callose, la pazienza quando bruciava il cibo, troppo intenta a leggere qual vecchio romanzo, della vergogna provata per le dicerie sul suo conto, delle sorprendenti dolcezze e cure di Agata. Tornò lucida, così presente a se stessa, da sentire tutto il dolore del mondo concentrarsi all’ingresso del suo sedere, dove picchiava una mano nodosa, come fosse un mulo da incitare.
Lo lasciò fare buona, conscia che se si fosse ribellata, avrebbe sentito più dolore. La sua mente era tornata incerta e voleva godersi quei ricordi, riaffiorati dal mare ingorgato delle sue viscere in oblio.
Lui finì, sporcando il pavimento. Poi decise che stava più comodo se le torceva i capelli e la guardava, rattrappito, mentre tornava dentro di lei stavolta più veloce ma meno vigoroso.
La presenza di lui era un lontanissimo ronzio. Pensò che questo silenzio lo facesse innervare come se fosse inesistente.
Cominciò a pizzicarla, morderla, darle dei ceffoni con il suo membro immobile, gocciolante e penzolante davanti al suo ingresso. I colpi si facevano più duri. Sentì distintamente un man rovescio procurargli la frattura della mandibola. Poi le volò via un dente. Aveva gli occhi fuori dalle orbite e sembrava quasi piangere, come se volesse vomitare dalle mani tutto il male del mondo. Ciocche di capelli erano incastrate nelle sue dita.
Decise che le facevano male i polsi. Brandì il forcone del camino, lo scaldò finché diventò rosso, tale che quasi fondesse, e glielo batté violentemente su una coscia.
Lei gridò.
Capitolo IV
All’altezza della stalla sentirono delle urla provenire dalla casa. Agata sbiancò e si fermò in mezzo alla radura. Beatrice corse più veloce che poté e spalancò la porta.
Viola era sdraiata carponi sul pavimento e una coscia, infuocata, emanava puzza di bruciato.
Lui aveva il membro moscio tra le gambe, la faccia stravolta. L’odore di uomo e vino era talmente forte da far venire i conati.
Chiuse la porta alle sue spalle e si inginocchiò a terra.
Lui la guardò divertito pensando che potesse essere un bocconcino prelibato.
Lei pose i palmi delle mani sulla terra e sollevò gli occhi al cielo, come se il soffitto fosse fatto di nuvole.
Agata batteva contro la porta piangendo, incapace di aprirla, come serrata da una forza oscura.
L’uomo si avvicinò a passi pesanti, strisciando verso Beatrice.
Lei lo fissò e in un solo istante tutte le forze lo abbandonarono.
Il suo membro si rinsecchì a sembrare cosa morta, vuoto involucro di impotenza.
Lui pianse come un bambino e si sollevò implorante di lasciarlo andare.
Beatrice gli lasciò il passo e corse ad abbracciare Viola, sudata, ridotta in brandelli.
Agata butto giù la porta e osservò la scena, inorridita.
Lui la oltrepassò, offeso, e le disse:
«statt’accorta ca chilla è na magara».
Rosa Alfano