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Mi piacerebbe saper descrivere la mia visita a Matera come i Subsonica parlano di Torino. Con quella stessa intensa intensità. Sono stato a Matera che c’era un cielo plumbeo. Ho pensato d’aver beccato una giornata sfigata e di aver perso soldi del viaggio e, soprattutto, tempo per vedere qualcosa. Sottovalutavo il fatto che Matera Capitale della Cultura 2019 ha dalla sua parte la clemenza degli eventi atmosferici. Tutto questo mi ha permesso di entrare nel cuore del suo centro storico e rimanere con il fiato mozzato per le sue incredibili affacciate. Sono stato in piazza. Mi sono affacciato da quello splendido balcone, quello con le mattonelle con le ricette, e ho visto tutto il biancore delle case in pietra. Sassi bianchi che ti fanno perdere lo sguardo. Poi, davanti a me, la Murgia materana. Tira un po’ di vento qui ma sei talmente incantato da tutto questo spettacolo che non fai caso alla possibilità di dover fare i conti con il termometro…
A spasso sui massi della Murgia vedo tutto quello che avevo visto prima dall’altro lato. È questo il bello di Matera: puoi vedere tutto da punti differenti. Già questa sarebbe stata una bella motivazione per farla Capitale della Cultura europea: vedere un mondo con tanti occhi. E Matera questo è.

A Rashid, da cui è nato tutto,
a Chris, Keely e Ben, per l’aiuto nel corso degli anni,
a Keif (che rimane lo scrittore più bravo della famiglia),
alla mia Fagiolina, che dà un senso a ogni cosa,
a Norman, per il sostegno indescrivibile,
a papà, che mi ha dato l’esempio,
e a mamma, che non ha fatto in tempo a vedere il libro
ma ne sarebbe stata orgogliosa.
GEORGE GRECIA JR.

Bitches Brew, il capolavoro di Miles Davis che ha rivoluzionato il jazz, di George Grella Jr. narra dell’esperienza vissuta dallo stesso autore ed un suo amico (all’epoca entrambi quindicenni) che per la prima volta si approcciano all’ascolto del leggendario disco.

Casa editrice indipendente italiana Maximum Fax.

Non proprio “pischelli” in ambito musicale, i due giovani adolescenti subiscono tutto il fascino del progresso armonioso che sconvolge da circa cinquant’anni il panorama discografico e commerciale ma principalmente quello artistico del jazz.

“Quello del jazz come musica «classica» è un cliché privo di senso: il jazz non ha alcun bisogno di sigilli paternalistici” e ancora “E l’arte americana più radicata nella tradizione orale è proprio il jazz”.

Bitches Brew, album doppio di Miles Davis pubblicato nel marzo del 1970 in collaborazione con Teo Macero e la cooperazione di musicisti quali: Wayne Shorter, John McLaughlin, Joe Zawinul, Chick Corea.

“Il risultato fu un’opera d’avanguardia dotata di soul e ritmo, musique concrète ballabile, rock che spazzava via l’autocompiacimento del jazz, jazz che scimmiottava i limiti del rock. Odiato da chi lo ama, amato da chi lo odia, l’una e l’altra cosa, nessuna delle due, tutte e due e ancora di più”.

L’autore trascrive con passionalità le varie fasi musicali prima e dopo il grande componimento e successo di Davis. Analisi attenta e critica ma, allo stesso tempo, non completamente al di sopra delle parti: “Suonava sempre con sincerità, era un solista intensamente ed eroticamente intimo: ascoltandolo, sentivi i suoi pensieri, e lui ti raccontava «le cose come stavano»”

Sì percepisce l’enorme interesse e l’immediato incanto che il disco ha suscitato nel suo modo di vivere e nel modo di vivere dell’intero genere umano. Trasformando, come solo la musica sa fare, un pensiero, una visione, la nostra stessa esistenza.

Cade nel Parco delle chiese rupestri e non poteva che essere così. Ho scoperto dell’esistenza di Montescaglioso perché sono appassionata ai luoghi di culto e, nella mia visita a Matera città capitale europea della cultura, ho saputo che qui ce ne sono diversi e tutti pieni di storia e molto belli.
La città dei monasteri la chiamano. Sì perché, fra intatti e meno intatti, qui ce ne sono ben quattro. Parliamo del convento femminile della Santissima Concezione del Sedicesimo secolo; del Il convento dei Padri Cappuccini sempre dello stesso periodo; il convento di Sant’Agostino e, soprattutto, l’abbazia benedettina di San Michele Arcangelo. Il mio viaggio da qui è iniziato. Da questa struttura del Dodicesimo secolo. Il maestoso portale della chiesa e quelli del monastero sono stati costruiti da Altobello ed Aurelio Persio. Il campanile normale svetta sul complesso monastico. Si può vedere ancora la sua lanterna così come si possono vedere i resti della costruzione originale che fu modificata nel 1590. Quasi un secolo dopo viene costruita la cupola a cilindro. Nel corso del tempo, mi hanno raccontato gli abitanti di qui, il coro in legno e l’altare in marmo sono stati portati a Lecce e nella cattedrale di Matera. E poi il monastero permette di vedere i suoi bellissimi chiostri, la biblioteca. Insomma non è un caso se questo posto è uno dei più visitati della Basilicata. Poi usciti fuori possiamo vedere la chiesa Madre con gli affreschi di Mattia Preti e tutta la bellezza della natura che c’è lì intorno.

La svedese Storytel, il principale servizio di streaming di audiolibri ed ebook del Nord Europa, festeggia il suo primo compleanno italiano con un progetto di comunicazione che ha al centro l’importanza dell’ascolto.

Oggi si inaugura una grande esposizione interattiva aperta a tutti a piazza XXV Aprile a Milano, l’installazione “Storytel Gallery” con audiolibri e podcast scelti dal catalogo che daranno voce ad alcuni oggetti, simboli dei temi caldi del panorama sociale contemporaneo. Così una mazza proveniente da un corteo di estrema destra, che parla del riemergere di pezzi di storia, è stata associata a “M.Il figlio del secolo” (Bompiani) del vincitore del Premio Strega 2019 Antonio Scurati, che è disponibile in esclusiva Storytel con la voce di Raffaele Farina. E il 16 luglio vengono lanciati i primi Storytel Original di fiction con Black Dolphin, thriller di Christian Frost e Virus, distopia di Daniel Aberg. Dieci episodi a stagione di un’ora ciascuno per la frontiera dell’audio entertainment.

E’ stato abbattuto a Stilo il balcone realizzato abusivamente sull’ingresso dell’abitazione da tempo indicata come la casa dove nel 1568 nacque il filosofo Tommaso Campanella.

L’abbattimento è stato disposto dalla Commissione straordinaria che guida il Comune dopo lo scioglimento per presunte infiltrazioni mafiose.

“La Commissione straordinaria – è detto in un comunicato – dopo la segnalazione dell’esistenza di un balcone ha immediatamente disposto i dovuti accertamenti ed ordinato i provvedimenti da attuare in via d’urgenza. Nel giro di qualche giorno il balcone è stato abbattuto e lo stato dei luoghi è stato riportato all’originaria situazione”.

I componenti della Commissione, Maurizio Ianieri, Roberto Micucci e Rosanna Pennestrì, in carica da maggio scorso, hanno espresso “massima soddisfazione per il risultato raggiunto. Un segno tangibile – hanno affermato – che va nella direzione del perseguimento dell’interesse collettivo nel pieno rispetto delle leggi”.

I fortini naturali di Montalbano Jonico. È normale che queste bellezze naturali fossero usate dai briganti per sfuggire alla giustizia. Ho conosciuto a Montalbano Jonico quando studiavo all’università, a Catanzaro in Calabria, e mi mandarono qui perché c’erano dei progetti comuni. Ora che Matera viene celebrata come Capitale europea della Cultura ho approfittato per portarci i miei figli e mio marito. La prima cosa che ho fatto vedere è il geosito di Petrolla con la sua argilla ovunque. Sembra un paesaggio lunare e qui, fra questi spazi, il brigantaggio trovava grandi spazi per portare avanti le proprie lotte ma anche le proprie ruberie. Le creste argillose create con l’erosione che circondano la collina di Montalbano sono un patrimonio scientifico enorme perché ci dimostra la trasformazione del territorio nell’arco di un milione di anni. La bellezza della Lamia con il suo pozzo e con il suo ipogeo hanno lasciato senza fiato i miei ragazzi. E anche mio marito. Del mio periodo universitario qui ricordo anche, con grande interesse, le tre processioni che caratterizzano Montalbano Jonico: quella del Venerdì santo con i fedeli che portano in giro la Statua della Vergine; la festa di Sant’Antonio Abate con i fuochi pirotecnici e la festa di San Maurizio con musica e canti. Che gran piacere ritornare a Montalbano e con quel gioco che facevamo con gli amici dell’università. Quando ci chiamavano dalla Calabria, rispondevamo al telefono dicendo “A Montalbano, Jonico, sono”.

jo lattari“Il dolore di prima” è debutto nella scrittura a forma romanzo di Jo Lattari.
Franco Cordelli, il grande critico teatrale del Corriere della Sera, nella prefazione a questo testo – sospeso tra teatro e narrativa – individua tra le righe cinque momenti, cinque spazi, per una corrispondente chiave di  lettura. Non capita tutti i giorni un debutto editoriale di un testo pensato per il teatro direttamente in forma di libro. Certo, “Il dolore di prima” diventerà uno spettacolo, andrà in giro nei principali teatri italiani ma, nel contempo ,il libro, in modo molto originale, precede il debutto e la tournée dando dunque modo a chi leggerà di filtrare, capire e poi magari avere una riprova delle sue sensazioni direttamente dal palcoscenico.

In linea con comprovati temi funzionanti nella  narrativa contemporanea, di successo non solo in libreria ma anche in televisione – il riferimento ad esempio alla Amica Geniale potrebbe essere per nulla casuale –  “Il dolore di prima” è una storia famigliare, una di quelle storie che sembrerebbe un sequel se solo esistessero ancora le famiglie di un tempo. In realtà, pur essendo una storia “quasi” di oggi  questo testo rappresenta un archetipo di tutte le famiglie del nostro Paese e, in particolar modo, del sud del nostro Paese. Quel sud che ha dato tanto alla letteratura e che così tanto sta dando alla fiction. “Il dolore di prima” di Jo Lattari è dunque a suo modo un sempreverde e per questo potrebbe essere ben accolto in libreria la prossima primavera. Nel senso che potrebbe riaccostare i tanti lettori ormai perduti alla fruizione del testo teatrale (perduti più per mancanza di proposta che per scarsa volontà di lettura) e magari riaccendere passioni che sgorgano dalla conoscenza diretta del problema o meglio, del tema centrale: la famiglia.

Il dolore di prima
La copertina del romanzo di Jo Lattari

L’autrice, non nuova alla scrittura ma quasi debuttante in libreria, scoperta sorprendentemente dal critico più temuto e apprezzato del teatro italiano, sembra indicare una strada, quella del ritorno ad una lettura intrigante e classica. Quella di un dialetto mentale più che di una lingua parlata, dove per dialetto mentale si potrebbe intendere quel riferimento altissimo che è Natalia Ginzburg e il suo “Lessico famigliare”, un piccolo libro che ha fatto scuola ed epoca e ha fatto comprendere a tutti  che (quasi una citazione)  ogni famiglia è “famiglia” a modo suo.

La qualità, poi, della ormai conclamata scrittura “al femminile” non intendendo quest’ultima come genere ma come potente realtà emergente, sembra fare il resto per accreditare a questo testo ottime chances editoriali e soprattutto una possibile lunga vita sugli scaffali, corroborata dalla tournée omonima, dalle presentazioni e dalla ampia campagna di comunicazione che l’editore ha intenzione di costruire intorno a questa uscita.


Jo Lattari è nata in provincia di Cosenza nel 1976. Insegna italiano, latino e greco nei licei. Un suo racconto, “Vado all’America” è stato pubblicato su Corriere.it nel 2014. Feltrinelli ha pubblicato nel 2015, nella antologia “Ypsilon tellers”, il racconto “Countdown. La storia del pesce Nicola e della ragazza che gli prestò il nome”. Nel 2017 Futura, testata online del Corriere della Sera, pubblica il suo racconto  “La terrazza”. Nel 2015 scrive, con Marco Mottolese “Muri in transito” trattato socio-poetico sulle scritte murarie. Nello stesso anno collabora alla scrittura dell’atto unico “Polvere” recitando poi come co-protagonista nella omonima tournée che tocca i principali teatri italiani.  È autrice del documentario “L’Isola di Bonaria“ che nel 2015 ha vinto il festival cinematografico ETuscia, a Tuscania.

Un castello che è un parallelogramma. Miglionico mi colpisce subito per quello che tutti apprezzano: Il Castello del Malconsiglio. Già se lo nomini così ti sembra far tremare i polsi. È una struttura bellissima, costruita a partire dall’Ottavo secolo, piena di storia tanto da ospitare la cosiddetta “Congiura dei baroni” contro gli aragonesi. Una sorta di Trono di spade in salsa italiana dove i baroni del sud (in lucania erano potentissimi i Sanseverino), insieme al Papa volevano prendere il controllo di tutte le terre a scapito del re di Napoli. La Sala del Consiglio del Castello del Malconsiglio era una sorta di centrale della guerra. Dentro si asserragliavano le truppe locali per resistere a quelle dei napoletani. Il castello era diventata una vera e propria fortezza a scapito della sua residenzialità. La congiura e la sua guerra finiscono la fine del 1400. Il sud ne esce sconfitto e i Sanseverino passano il castello ai Revertera, signori che in Lucania avevano già altri possedimenti, che fanno diventare il Malconsiglio una “semplice” residenza. Ma quanto è maestosa però questa residenza. Ancora oggi, nonostante il terremoto del 1857 distrusse la parte nord-est del castello, è una struttura bellissima che mozza il fiato di chi lo scopre. Queste sette torri sono maestose e poi la Sala Stella, quella che era più segreta, utilizzata per le emergenze. Insomma a Miglionico c’è uno degli esempi più importanti di tutta la feudalità mondiale e io ho avuto il piacere di scoprirlo grazie alla visita che ho fatto a Matera Capitale europea della Cultura.

Io a Matera ci sono arrivata di sera. È stato Google Maps a stabilire che la città dovessi raggiungerla attraversando l’aperta campagna e le strade strette e desolate. Forse era un segno, perché ho poi capito che di quella città, prima ancora di scoprire i luoghi di cultura, dovevo comprendere le radici e i sapori contadini. E così, per assecondare gli eventi, ma anche per riabbracciare le mie amiche, appena arrivata mi sono infilata in uno dei locali del centro; quelli in cui, lo capisci dall’insegna, la mescita è appannaggio esclusivo delle nuove generazioni. I giovani materani hanno segni distintivi che riconosci solo se sei meridionale della resistenza 2.0, ed io, modestamente, lo sono.

Nei loro occhi c’è l’audacia di chi non se n’è andato, la speranza di chi è tornato, l’orgoglio di chi ha resistito, la serenità di chi si è sottratto ai processi di massificazione.

Tra un calice e l’altro, è spuntata una foto di me con una bellissima aureola geometrica, stampata alle mie spalle insieme ad altre, mentre sorseggio un corposo rosso: la prova della mia santità baccanale è su Instagram, tracciabile con l’hashtag #blasfemia. Ma quei disegni geometrici, psichedelici, simmetrici e ricorrenti, non l’avevo mica capito a cosa erano ispirati.

Mi serviva una videolezione di urbanistica, per leggere i segni della città, ed eccola servita: il mio tour, in una fredda ma brillante giornata di sole, è iniziato la mattina dopo, a casa Noah, edificio patrimonio Fai. La storia di Matera, raccontata dai video proiettati sulle pareti, ha cambiato il mio modo di camminare. Per esempio, ho riconosciuto i bellissimi rosoni geometrici, che mi avevano fatto da aureola la sera prima, nei bocchettoni d’aerazione in coccio delle case.

Quando sono uscita da lì, i passi nei Sassi erano scanditi da una curiosità tutta nuova, dall’attenzione per i dettagli, dal rispetto per una città che sta costruendo il suo riscatto.

L’intensità di questo bisogno di riscatto l’avevo appena appresa da un video emozionante. Dario Franceschini, da un grande schermo, annunciava alla piazza la vittoria della candidatura: Matera è capitale europea della cultura 2019. Migliaia di persone esultavano senza riuscire a contenere la gioia; guardare quelle persone piangere dalla commozione mi ha riempito di orgoglio calabro-lucano, mi ha riempito di fierezza.

Viene da chiedersi se saranno in grado, i materani, di trasformare questa forza magnetica in risorse future per il territorio. Ma se – come narrano i documentari – fino a 15 anni fa i sassi erano due quartieri fantasma, e il processo di rinascita è stato così rapido, allora Matera tutto può.

La cultura che bisogna cercare a Matera è la lentezza del gustare la vita, la semplicità dei sapori, l’autenticità dei rapporti sociali. Ho finalmente capito di quale cultura è capitale Matera.

Se vai a Matera, stai cercando il sapore della burrata e dei pipi cruschi, del pane buono e delle rape; stai cercando il sole e le chiacchierate lente, e perderti con lo sguardo alla ricerca dei segni distintivi della città.

Una volta un’insolita balaustra, una volta la cupola di una chiesta, un’altra volta un costone di roccia, la valle scura e deserta intorno, le improbabili piazze, gli alberi in mezzo ai massi, i giardini, i balconcini, le scalinate. Mentre stavo seduta a gustare i sapori della tradizione, i piedi mi friggevano. Avevo una voglia incredibile di mettere alla prova il mio senso dell’orientamento, di scoprire la città. Ma perdersi nei suoi vicoli è fin troppo facile: lo ammetto, ci sono cascata pure io.

Così intensa, così timida tra le colline, così originale. Che stupore, Matera!