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Osvaldo Barone, di Torino. Null’altro.

D’altronde come si può, mi chiedo, aggiungere qualcosa per descrivere un ragazzo di appena sedici anni.

Era uno dei tanti. Non ancora uomo, non più bambino, impaziente anche lui come tutti i suoi coetanei di superare di slancio quegli anni difficili, di attraversare correndo, il più in fretta possibile, il ponte di assi sconnesse, malsicuro e scricchiolante che è l’adolescenza per mettere piede sull’altra sponda, quella della maggiore età, quella degli uomini, immaginario e illusorio paradiso di delizie da scoprire.

Chi procede su questo ponte è come un plotone compatto di piccoli soldati uguali tra loro, perfettamente intercambiabili.

Stessi tatuaggi, a volte un piercing, le scarpe da tennis rigorosamente Nike, jeans a vita bassa e dopo un po’ a vita alta secondo le cicliche maree imposte dagli stilisti nostrani. I polsi zeppi di braccialetti, l’ultimo modello di cellulare in tasca e gli auricolari incollati alle orecchie. Poi lo slang da branco e le pose da vissuti, lupi di mare che fingono di aver solcato tutti gli oceani.

Vorrebbero in questo modo ingannare i guardiani del ponte e passare di soppiatto dall’altra parte.

Ma loro, inflessibili, incorruttibili, inevitabili sorridono beffardi a questi espedienti.

Hanno stabilito un prezzo per chi ha goduto della gioiosa riva dell’infanzia ed è un prezzo molto alto che solo il  cuore di questi piccoli soldati  dovrà pagare un giorno. Sono lì, alla fine del ponte e aspettano, aspettano  senza fretta per cancellare i loro sogni.

Perché è questo e non altro ciò che vogliono: i sogni.

Ma per Osvaldo non era ancora arrivato il tempo delle riflessioni amare.

Andava a letto presto, presto si svegliava la mattina per ripassare la lezione. Poi svogliatamente andava a scuola, terzo anno di perito elettronico, e tra un canto dell’Inferno ed un’equazione la sua mente correva già alla felicità che gli avrebbe riservato il pomeriggio, pieno di un rettangolo verde e di un pallone.

Perché anche lui come quasi tutti i soldati di quel ponte era appassionato di calcio , anzi di più ; Osvaldo il calcio lo amava. Un amore certamente esigente, che tanto pretendeva, ma per lui nessun sacrificio era troppo gravoso.

E così alla fine delle lezioni mangiava un panino di corsa ed era già in strada,  per arrivare in tempo all’inizio degli allenamenti.

A proposito dei quali mister Giordano aveva idee molto chiare. Se si voleva giocare a pallone, ebbene doveva essere il pallone il centro di ogni pensiero. Non ammetteva deroghe a questa regola. Bisognava conoscere l’attrezzo.

Non si era lasciato sedurre dalle nuove teorie di Coverciano sostenute da rampanti ex professori di ginnastica assurti al fasto nominalistico di preparatori atletici. Secondo loro un calciatore prima di tutto deve essere un atleta e pertanto andava privilegiata la preparazione fisica.

Così quando hai smesso di correre e ti capita la palla tra i piedi ti prende il panico, chiosava Giordano. Ragazzi, non facciamo che quella cosa rotonda che vi rotola davanti diventi un ufo – oggetto non identificato.

E allora non c’era che il muro per ricoprire i piedi di velluto. Due, tre metri di distanza e poi piatto destro, uno due tre, piatto sinistro, uno due tre, destro  sinistro, destro sinistro, e avanti così per  ore, mesi, anni.

Giordano  pretendeva  che tra un colpo e l’altro si contasse mentalmente, uno due tre destro, uno due tre sinistro. Solo così si prendeva il ritmo, diceva, si raggiungeva la giusta concentrazione e le gambe, il pallone, i movimenti diventavano parte di un’unica danza.

Poi si passava alla conduzione della palla, da porta a porta; interno ed esterno, interno ed esterno. Per ore, mesi, anni.

Poi si imparavano i primi movimenti per superare l’avversario. Dieci paletti conficcati in fila indiana a distanza di un metro l’uno dall’altro; si portava il pallone lì dentro, zigzagando, prima con l’interno, destro e sinistro, poi con l’esterno, destro e sinistro. Per ore, mesi, anni.

Poi arrivavano gli scambi con i compagni, l’uno-due, vale a dire l’abc del calcio, il mattone sul quale si costruisce l’intero edificio del gioco collettivo. Si passa la palla ad un compagno che di prima te la rimette davanti con l’avversario che rimane alle spalle.

Giordano aveva escogitato per l’uno-due un marchingegno semplice ma geniale,  chissà se l’aveva costruito lui stesso o l’aveva commissionato ad un falegname. Un triangolo di legno, tre lati inchiodati assieme. I calciatori in fila, uno dietro l’altro, in velocità per un tratto, poi tum, pallone contro la sponda di legno e avanti a riprenderlo per chiudere l’uno-due. Per ore, mesi, anni.

Poi si continuava con gli stop; di petto, di coscia, di piede, e con il piede, di destro, di sinistro, di interno, di esterno, con la suola. E poi i tiri in porta; destro, sinistro, al volo, da fermo, in corsa, rasoterra, di controbalzo, in acrobazia, di interno, d’esterno, di collo. Poi i  colpi di testa; saltando da soli o dietro l’avversario, da fermi o in corsa. Ed infine i cross e i lanci. Per ore, mesi, anni.

Alla fine di tutto questo sarà venuto fuori un calciatore? Quasi mai.

Non esistono leggi sicure nel calcio. Due più due  quasi mai fa quattro. La cultura positivista ed il metodo scientifico non troveranno mai asilo in uno spogliatoio. Per dire, a Galilei il calcio non sarebbe piaciuto. E se sarete un giorno il presidente di una squadra di calcio e dovrete scegliere il vostro allenatore tra il nuovo scienziato e l’altro, quello notoriamente  baciato dalla buona sorte, non abbiate dubbi: scegliete il culoso. Nel calcio regna sovrana l’eterna magia dell’imponderabile. In una partita tutto può cambiare in un attimo :bastano un paio di centimetri e la palla destinata in fondo alla rete si stampa sul palo. Così accade per i destini umani

L’impegno naturalmente è importante ma più di ogni cosa contano nascita e sorte.

Giordano lo sapeva bene, per questo non rispondeva mai quando gli chiedevano una previsione su uno dei suoi allievi. Aveva visto ragazzi con il magnete tra i piedi fare mirabilie nei tornei giovanili e poi perdersi perché incapaci di reagire alle prime difficoltà. Aveva visto ragazzi prodigiosi in allenamento, sicuri e pieni di personalità, trasformarsi in anonimi comprimari durante la partita  perché spaventati dal pubblico.

Sapeva bene che in fondo calciatori si nasce , e non si diventa.

Ci vuole carattere e talento, qualità che non si possono apprendere.  Quando arriva la palla sapere già cosa  fare, pensare un attimo prima degli altri, avere sveltezza e coordinazione per trasformare in azione quel pensiero,inventare , sorprendere ogni volta gli avversari, non aver paura di rischiare un tiro al volo anche se la palla finirà in curva.

Rendere semplice ciò che è difficile, tra le diverse soluzioni scegliere la più efficace, dribblare solo se è necessario, mai fare una giocata per compiacere se stessi ma pensare sempre e solo all’utilità della squadra.

E se all’ultimo minuto ti fischiano un rigore a favore e stai perdendo uno a zero, prendere la palla, appoggiarla sul dischetto e spararla nel sette, così, senza un brivido.

La natura, si diceva. Dipende da ciò che alla nascita ti ha messo dentro il Padreterno, che è sempre molto parsimonioso in questo senso. Per questo di calciatori ne nascono pochi. Ma Osvaldo Barone era un calciatore. Lui era nato calciatore.

Giocava nel Beinasco ma Giordano sapeva che quello sarebbe stato l’ultimo anno. Troppe squadre importanti avevano già telefonato in sede per avere informazioni, troppi osservatori si erano avvicendati negli ultimi  mesi in tribuna .

Sarebbe volato via dal nido, era inevitabile. Giordano sperava solo che gli lasciassero il tempo di aiutare la squadra a vincere il titolo piemontese.

Anche la direzione del cielo era segnata. Giordano sapeva anche questo. Osvaldo non avrebbe mai accettato un trasferimento che non fosse quello da lui desiderato.

Era il sogno che lasciava ogni mattina sul cuscino quando si alzava svogliatamente per andare a scuola.

Soltanto al mister aveva osato confessare quel nome e quel nome era Juventus, la squadra della sua città, la più forte, la più nobile, la più titolata.

Era il settantacinque e lui passava ore davanti all’album Panini. Sapeva a memoria la formazione della Juve, peso, altezza e carriera di tutti i giocatori, riserve comprese.

Quando non era impegnato con gli allenamenti passava interi pomeriggi in piazzetta a giocare, a giocare ancora, a giocare sempre: a palla, pallone, pallina. Qualsiasi cosa purchè rotolasse e si potesse prendere a calci.

In realtà le dimensioni dell’attrezzo, tanto per dirla alla Giordano,  variavano a seconda del  campo  e delle porte.

Se si giocava in piazza, quindi c’era spazio e le porte erano grandi, si prendeva il pallone. Se invece si giocava nei giardini, con uno spazio esiguo e le panchine come porte, ci voleva la palla, più piccola.  Ma a volte si prendevano due cassette tra i rifiuti del mercato e si appoggiavano sul lato lungo. Quelle diventavano le  porte e allora bisognava usare la pallina da tennis.

Così per ore, mesi, anni.

Sicuramente arrivava da quegli infiniti pomeriggi la straordinaria capacità tecnica di Osvaldo.

Durante le partite con gli amici  simulava la telecronaca di Nando Martellini.  Furino prende palla a centrocampo, resiste al contatto di un avversario, la smista sulla destra alla volta di Causio, Causio si  libera di un uomo, si invola sulla fascia ed effettua il traversone, irrompe a centro area Anastasi… Anastasi…gol!  Anastasi con un gran tiro  al volo mette il pallone alle spalle di Ginulfi portando in vantaggio la Juventus. Juventus 1-Roma 0.

In quelle epiche battaglie pomeridiane lui era sempre Anastasi.

Si identificava nella sua storia di ragazzo del  sud, da Catania a Torino, alla Juventus. Gli sembrava un po’ simile alla sua, nato a Torino ma figlio di siciliani. Gli sembrava che  la scelta fosse in qualche modo inevitabile, non poteva esserci altro campione per realizzare una identificazione credibile.

In verità il suo modello era un altro, era Bettega, per lui aveva un’ammirazione sconfinata.

Il suo era un calcio chirurgico, di una pulizia assoluta. Mai una sbavatura, mai un leziosismo, mai un tocco in più. Faceva sempre e solo quello che andava fatto in quella situazione, e non sbagliava mai. Lui era il manuale del calcio.

Anche Osvaldo giocava con il numero undici ma Bettega gli sembrava troppo altolocato, troppo borghese, inavvicinabile per lui. Che era un popolano, che veniva dalla strada, come Pietro Anastasi, e allora viva Petruzzu.

La chiamata  del destino arrivò proprio il giorno dopo la partita che sanciva la vittoria del titolo regionale.

La raccomandata informava che la Juventus aveva ottenuto dal Beinasco il prestito del giocatore Osvaldo Barone per tutta la durata del torneo in notturna  Golden Boy di Abbiategrasso.

Giordano dandogli il via libera l’aveva fatto uscire dal nido; sapeva che Osvaldo era pronto a volare. Adesso c’era il cielo da conquistare.

Osvaldo pianse la sera in cui si vide addosso quella maglia. Niente di imbarazzante, non voleva farsi vedere  dai nuovi compagni; solo due lucciconi in bilico sull’orlo delle palpebre risospinti indietro appena  un istante prima che precipitassero sulle guance.

Era il sogno  che aveva lasciato il cuscino per diventare realtà.

Ma non c’è più tempo per la commozione. L’arbitro è già lì per l’appello. Quando esce dallo spogliatoio il campo è un catino di luce. Esegue gli ultimi scatti per tenere caldi i muscoli e  si comincia.

Osvaldo  gioca bene i primi palloni che riceve, i più importanti, quelli che decidono il corso personale di una partita. Gli tornano in mente i consigli di Giordano prima di partire: gioca come sai , gioca facile, non strafare.

Si sente bene, si muove con agilità e mano a mano che il tempo passa acquista sempre più fiducia.

“Bravo Barone, forza” sente gridare ogni tanto dalla panchina.

Non è la voce di Giordano ma la sente ugualmente calda. E gli fa bene.

Ecco, si trova ora a metà campo, si fa vedere smarcato, chiama la palla… troppo lunga, si distende in scivolata, vede un avversario incombere su di lui….

Un dolore lancinante mi prende la gamba e urlando mi accascio a terra. La gamba destra è piegata all’altezza del ginocchio, non riesco più a distenderla.

Un capannello di gente mi si forma attorno, osservo le loro espressioni sconvolte.

Arriva la barella, qualcuno mi butta addosso una coperta , mi caricano in fretta sull’ambulanza mentre il dolore spalanca davanti a me baratri spaventosi.

Spostarmi dalla barella al tavolo dei raggi e poi sistemare le lastre sotto la gamba è come precipitare in un abisso.

Non voglio urlare, mi sforzo di non farlo ma fitte terribili mi annichiliscono ad ogni leggerissimo movimento, ondate di dolore invadono ogni fibra del mio corpo. Alla fine piango, ed urlo. Basta, vi prego, pietà.

La liberazione arriva finalmente con il sonno; in anestesia totale riducono la frattura. Perché di questo si trattava: frattura scomposta del condilo mediale del femore destro.

Quando mi risveglio mi sembra di essere disteso sotto l’albero maestro di un veliero. La gamba sopra un paio di cuscini, informe per il gonfiore, è incassata dentro una lunga conchiglia di gesso. Vedo strani fili e tiranti che partono da un lungo tubo d’acciaio sopra di me, l’albero della nave. Il lenzuolo, teso come una vela, copre tutto.

Ho indosso solo le mutande. I calzettoni, la maglia, perfino i pantaloncini, non ritrovo più nulla, è tutto sparito, opera evidentemente di qualche infermiere del pronto soccorso a cui non è parso vero di arraffare con tanta facilità un tale prezioso bottino.

Mi spiegano che il veliero è il congegno necessario alla trazione.

Sette giorni e sette notti di immobilità assoluta, pappagallo e padella per le umilianti necessità del corpo. Infine l’operazione. Due viti incrociate dentro il femore, mezzi di osteosintesi le chiamano.

E’ passato un mese da quella sera.

Sono qui, sul terrazzino dell’Ospedale di Abbiategrasso, insieme ad altri malati, a godermi gli ultimi caldi raggi del sole che calando si portano via un altro giorno. Sono seduto su una sedia a rotelle, mi hanno detto che tra qualche giorno potrò finalmente tornare a casa.

Davanti a me gli alberi si ergono maestosi e sembrano schiacciare ancora più in basso le case e le fabbriche ma li vedo lontani, lontani come sono ora  i miei sogni.

Perché Osvaldo Barone sono io.

Il calcio per me è diventato un ricordo. D’ora in poi ne potrò solo parlare. Di ricominciare a giocare non se ne parla nemmeno.

I dottori  non mi hanno dato nessuna speranza. E’ già tanto se non rimarrò zoppo per il resto della mia vita; la frattura ha leso una cartilagine di accrescimento. Una gamba potrebbe crescere e l’altra no.

Boniperti mi ha mandato un telegramma augurandomi una pronta ripresa ma è la solita formula di cortesia. La Juventus comunque è stata perfetta.

Ha mandato più volte il dottore della prima squadra per visitarmi e spedito all’ospedale  buste piene di spille, penne, portachiavi, gagliardetti.

In tutta la storia del calcio  probabilmente sono stato l’unico ad essersi rotto il femore nel corso di una partita ma non entrerò per questo nel guiness dei primati. Rimarrò solo uno dei  tanti sfigati. Ricordate? si parlava di fortuna.

L’ho scritto io questo racconto, disteso sul mio letto, nel tentativo di rimediare almeno in parte alla monotonia  della vita d’ospedale.

Quella che ho scritto dunque è una storia vera, tremendamente vera purtroppo, ma solo ad un certo punto sono intervenuto in prima persona perché se i sogni e le speranze che coltivavo un tempo potevano essere comuni a migliaia di altri ragazzi come me così da poterne scrivere impersonalmente , il resto della storia è diventato solo ed esclusivamente mio.

Il dolore fisico è un’esperienza che non puoi dividere con  nessuno, riguarda solo te stesso. E’ un mostro orribile che devi affrontare da solo quando decide di affondare  i suoi artigli  dentro di te e strapparti la carne.

Qui sul terrazzino, di fronte a questo meraviglioso crepuscolo, rileggo ciò che ho scritto all’inizio del racconto.

C’è un momento nella vita  in cui ci si rende conto che l’adolescenza è rimasta per sempre alle spalle, che abbiamo attraversato il ponte. E questo momento coincide sempre con un dolore.

Da lì  in poi si chiudono gli occhi dell’immaginazione e si aprono quelli della realtà di tutti i giorni. E ci si accorge che in fondo non era così bello come si pensava il mondo che ci stava aspettando e che noi aspettavamo.

Anch’io ho pagato il pedaggio, anch’io ho attraversato il ponte lasciando ai  guardiani i miei sogni mentre dietro di me fitte schiere di altri ragazzi si stanno approssimando.

Per ora non vedono i mostri al termine del ponte con la mano protesa ad esigere il loro  tributo.

Ma è solo una questione di tempo.

Teodoro Lorenzo, Torino

 

Marcello Ravveduto studia la modernizzazione delle mafie. Insegna  ditigal public history all’ Università degli Studi di Salerno e Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia. Ha scritto per l’Ediesse Libero Grassi. Storia di un siciliano normale (1997), Le strade della Violenza (2006), con Isaia Sales, per l’ancora del mediterraneo (Premio Napoli per la saggistica), Napoli… Serenata calibro 9. Storia e immagini della camorra tra cinema sceneggiata e neomelodici (2007), con la prefazione di Giuliano Amato, per la Liguori editore. Ha curato l’antologia Strozzateci Tutti (2010) per Aliberti editore ed è responsabile dell’edizione digitale del blog contro le mafie www.strozzatecitutti.info Ha vinto nel 2005 il Premio Nazionale Marcello Torre per l’impegno civile. È presidente dell’associazione antiracket Coordinamento Libero Grassi.

Si è fatto intervistare per LeggoScrivo e ci ha parlato di immaginari, presenti, reali e futuribili, non solo legati al mondo della criminalità organizzata ma anche del lavoro, dell’economia,per riscrivere tutti insieme un’altra storia possibile.

L’8 gennaio è stato il centenario della nascita di Leonardo Sciascia, il 6 l’anniversario dell’assassinio di Piersanti Mattarella, sono passati 40 anni, era il 1980. Lei ritiene che al di là della memoria episodica, legata al singolo avvenimento, quasi a uso e consumo, ci sia voglia e spazio di riscrivere e di ripensare alla storia d’Italia inglobando non soltanto fatti delittuosi, e date commemorative?

I tempi sono maturi per non separare la storia delle mafie da quella d’Italia. Le mafie sono delle strutture di potere che interagiscono con altri pezzi di Paese (imprese, Stato, società civile). Se è vero che la borghesia, il ceto medio è stato protagonista di molti mutamenti, come sostiene Paul Ginsborg, in questo ceto medio vi sono anche i mafiosi, che hanno avuto anche un ruolo economico e politico, oltre che criminale. E la società civile non è avulsa dal contesto, non può dirsi innocente. Indagare in profondità, con rigore scientifico, questi aspetti senza complottismi, perché come diceva Sciascia, se tutto è mafia allora niente è mafia, può essere non soltanto utile, ma anzi, necessario per comprendere i fenomeni.

 

Nella sua carriera come nella sua bibliografia lei si è sempre occupato dell’immaginario delle mafie, della globalizzazione delle cattive idee nel mondo della musica, dei social e del mondo del cinema, recentemente, di come cioè il brand “mafia” fattura e produce. Ci sa dire se e come è cambiato negli anni?

Se guardiamo indietro ai media, ad esempio, il racconto da loro fornito era pieno di folklore. Per l’importanza che riveste, per aver attentato alle libertà, il racconto della criminalità merita altre attenzioni; e nel cinema di là dagli stereotipi e di alcuni punti fermi, dall’omicidio di Dalla Chiesa e poi dopo dalla fase stragista del ’92 questi stereotipi si sono ribaltati e ne sono stati costruiti degli altri. La mafia, sempre più centrale nel narcotraffico, è rappresentata in modo globalizzato.

Se dovesse usare tre parole per descrivere la sua attività di ricercatore e divulgatore quali sceglierebbe?

Ci sono tre parole che riassumono la mia attività non solo di studio e ricerca e si uniscono in unica dimensione di racconto e sono: coscienza, responsabilità e impegno. Dedicandomi agli aspetti poco conosciuti legati all’immaginario delle mafie, il mio interesse è scaturito da una scelta consapevole. Nel 1992 avevo vent’anni, quello fu un anno di cesura, come il ’68. Emerse una consapevolezza nuova, una coscienza civica che si doveva contrapporre all’elemento eversivo dell’ordine democratico che la criminalità aveva fatto emergere con chiarezza.

 Dal suo punto di vista, quello di docente universitario, ritiene che il mondo accademico sia stato dimenticato o comunque accantonato nel dibattito pubblico a causa della pandemia? E dal suo punto di vista ritiene che possa proporre nuovi modelli di speranza, forza, modelli alternativi per una rinascita?

Il mondo accademico ha riflettuto sulla pandemia in modo classico: discutendo fra loro. È anche vero che la società civile non è interessata a queste riflessioni elaborate nella “torre d’avorio”.  Bisognerebbe mettere fine al dialogo tra sordi. Negli ultimi anni, con lo sviluppo del digitale, abbiamo assistito alla disintermediazione del sapere, sostenuti dalla convinzione che si può aggirare il sapere e avere google come medico. Quindi, non soltanto la cittadella non viene ascoltata, ma viene attaccata, pensiamo ai no vax. Vi è stata una continua messa in discussione delle scienze naturali ritenute opinabili, ancor più quelle umane.

Concentrandoci ancora sulla situazione attuale e sull’emergenza sanitaria che stiamo vivendo quali vantaggi ritiene abbia ricavato la criminalità organizzata, come si è ingrossato il loro giro di affari?

Il mondo delle mafie è flessibile agli accadimenti internazionali e nazionali. Ha trovato nuovi modi di lucrare in questa situazione. Ma il narcotraffico, principale fonte di guadagno, non si è fermato, non conosce crisi. Esso alimenta investimenti che sono spostati in altri segmenti, come ad esempio imprese che si occupano di contraffazione o legate al mondo dei servizi della sanità, o della grande distribuzione organizzata.

Nella sua Regione di provenienza, la Campania, nei mesi scorsi è esplosa una bomba sociale, sembrerebbe in modo più violento e plateale. Ritiene che la rabbia e il mal contento siano sufficienti a spiegare la situazione ed esaurire le motivazioni all’origine di quelli che vogliamo definire i “moti ” di Napoli o al contrario si tratta di fenomeni più complessi e variegati?

Hai fatto bene a chiamarli moti, perché non si è trattato di una mobilitazione matura che avrebbe prodotto una trasformazione. La rabbia non fa ottenere un risultato. Si è trattato di lamentare problemi endemici della città metropolitana di Napoli esplosi in una rabbia senza soluzione, che fa persistere l’aspetto violento. Vi erano dei settori borderline, legati all’economia sommersa e alla vita precaria, magari fomentati dalla criminalità che però non ha alcun interesse a far accendere i riflettori sulla città, necessita al contrario di silenzio. Se la criminalità fosse stata promotrice dei disordini avrebbe messo ancor di più e per più tempo a soqquadro la città. Esistono invece dati strutturali di marginalità e espedienti di vita al limite della legalità che la pandemia ha svelato in modo ancora più evidente. La mancanza di misure per contrastare tali fenomeni e di scelte istituzionali e politiche a ogni livello fa sfogare una rabbia inutile alla risoluzione di questi problemi.

Un augurio per il futuro e un prospetto, cosa sarà destinato a cambiare e cosa invece probabilmente porteremo con noi ancora a lungo?

Dal modello ibrido dell’intermedialità del digitale non si può tornare indietro. Tornerà il contatto umano, la vicinanza e la prossimità, ma la digitalizzazione della società va accettata, sarà sempre più elemento di normalità. Del resto il digitale permette di costruire più facilmente una rete di contatti che abbatte le barriere geografiche. Il digitale riveste un ruolo fondamentale nella smaterializzazione dell’economia, pensiamo ai riders. Molti mestieri saranno riconvertiti o scompariranno. La mia preoccupazione è che non vi sia coscienza della trasformazione che non appartiene a un futuro distopico e fantascientifico, ma è già in atto. La classe dirigente manca di progettualità, di una visione del futuro, pensa ad aspetti marginali. Nel mondo che sarà la guerra si combatterà con l’intelligenza artificiale, con l’automazione. Per renderci protagonisti del futuro bisogna dirigere il cambiamento non averne paura.

Allora…un passo a destra e poi a sinistra. Continua a camminare; passeggia su e giù in questo tugurio. Urla. Piangi. Distruggi. Crea. “Orbene, mi sono mosso?” e getto un’occhiata furente e disperata attorno a me: sono ancora qui. Maledizione! La voce si fa fioca e debole; si aggrappa per la gola ma rimane bloccata. Qualcosa la blocca, è sicuro. Un tremolio pervade il mio corpo. All’inizio è debole. D’un tratto non riesco nemmeno a tenere la sigaretta salda fra le mie dita sudicie.

La getto via: “Al diavolo” penso. Le labbra s’impallidiscono, quasi come se fossero preda d’una congestione per via del gelo. Poco dopo, tutto il corpo somiglia ad una statua di cera. E mi sento bloccato, non riesco a muovermi. Mi divincolo, con tutta la forza che ho; il risultato è alquanto patetico e fallimentare. Allora cesso di lottare: ascolto il silenzio.

“Quanto rumore fa questo silenzio, che strazio!” discorro ancora fra me, come se servisse a qualcosa poi. Qualche minuto dopo riesco finalmente a muovermi. Gioisco. “Finalmente!” urlo con aria vittoriosa. Poi mi giro attorno. Bene, non so per quale motivo l’abbia fatto. Per condividere la mia gioia con qualcuno? Per riderci sopra? Ma qui non c’è nessuno!

La sola luce presente nella stanza inizia a singhiozzare. Poi, si spegne. La mano delle tenebre s’annida in ogni angolo, fino ad annidarsi nei miei pensieri. Ed ecco qui: luci e ombre. Due sentimenti opposti in perenne lotta; continuano a massacrarsi fino a che non ne rimanga solo uno.

Piango: non verso lacrime. Queste riempiono le pupille, per poi rimanerci aggrappate. Non vogliono cadere al suolo per poi finire dimenticate: un po’ come la morte prima ch’essa venga a bussare alla porta. Tutto ciò balena nella mia mente come un lampo, qualche secondo e non so neanche più a cosa sto pensando.

Potete aiutarmi? Dove sono rimasto? Dov’eravamo rimasti? Dove siete finiti tutti voi? Dove finirò io?

E le domande s’accumulano come i rimpianti. “BASTA!” urlo con tono furente. Questa volta la voce finalmente ha trovato il modo d’uscire. Le pupille si tingono d’un rosso color sangue, le vene paiono uscire fuori dal collo. Le pareti tremano; non avevo mai visto vederle tremare così! Comunque, prendo le prime cose che riesco e decido d’uscire.

Apro la porta: torno nella stanza. Perplessità. Ci riprovo, niente da fare. Continuo a provarci fino a giungere alla stanchezza; il risultato non cambia. Corro quindi verso la finestra: mi fermo. Osservo il cielo divenuto nero, colmo di collera. La pioggia sembra non finire mai. Un tuono mi da uno scossone, che fa battere forte il mio cuore. Così forte che or ora giace nell’inquietudine. Provo ad aprire la finestra. Cerco di respirare un po’: vengo catapultato di nuovo nella stanza.

In quel momento la rabbia prende il possesso delle mie facoltà. Spacco qualsiasi cosa mi capiti a tiro: finestre, vasi e tanto altro ancora di cui non ho memoria. Sospiro di sollievo.

Chiudo gli occhi per rilassarmi; quando li riapro tutto è come prima. L’arredamento, i vasi intatti, le finestre ancora al loro posto. La disperazione a quel punto prende il posto di quell’ira furente. Provo a scappare ma non ci riesco. “CI SONO!” penso con aria soddisfatta questa volta. M’avvicino al mio scrittoio, accendo una candela. L’ultima che m’è rimasta. Non prendo la penna: come una magia di poggia soave nella mia mano destra. E senza ch’io dica o pensi nulla comincia a scrivere. E quante cose riesce a scrivere, non ne avete idea! Dipingere un intero mondo con l’inchiostro; se non è questo vivere allora cos’è? Tant’è che noto qualcosa di diverso. Sono riuscito a fuggire! Da lontano, quasi di sfuggita appare ai miei occhi quella casa, quella stanza. Qualche secondo di silenzio e poi…

BOOM! Un’esplosione la fa saltare in aria. Mille pezzi son ora sparsi sul pavimento: non è rimasto più niente. Ma alla fine non v’è mai stato nulla, in quella prigione. No, solo lacrime e sofferenza. Solo un giullare che s’è travestito da vita e cerca di imitarla! E la cosa peggiore è che sembro l’unico in mezzo a tanti altri unici ad essersene accorto.

Mentre continuo a pensarci, noto che la sera è calata. Com’è passato veloce il tempo! Ma d’altronde per noi ch’amiamo alla follia: il tempo non è. Il cielo è sereno, pulito, limpido. Le stelle riescono a vedersi tutte, come un dipinto. Lucenti come mai prima d’ora, brillano. E la luna…come s’alza trionfante di fronte al canto mio! O forse è il contrario? Fatto sta che un fascio di luce, proveniente dal suo grembo, si poggia sul mio viso. Mi mostra paziente la via, contandomi storie su storie. Ed io rimango lì ad ascoltarla. Come un bambino rimane estasiato quando scopre il mondo, in preda ad una morbosa curiosità. Mi trascina in luoghi dimenticati, di tempi oramai andati. Mi dice che se le cose andranno nel verso giusto, questi luoghi saranno di nuovo colmi di vita. Non come quella che c’era in quelle pareti: rabbrividisco solo a ripensarci. Il nostro viaggio continua. Ad un certo punto, dalle sue labbra saggie viene pronunziate la seguente frase:

“Non t’ho mai lasciato solo figlio mio e mai avrò intenzione di farlo.”

Vorrei abbracciarla, ma è così distante! D’improvviso però l’animo mio si libra in aria, spiccando le sue ali fiammeggianti come il fuoco e candide come le gote d’una fanciulla. Una volta raggiunta, mi perdo fra le sue braccia. La stringo così forte, così forte che dimentico ove finisco io e comincia ella. Una volta staccatoci, mi guarda. Non ha occhi, lo sapete: eppure riesce a guardare meglio di tutti noi. Dicevo, mi guarda fisso e prendendomi fra le sue mani gentili, m’adagia di nuovo al suolo.

Una volta arrivato, riprovo a raggiungerla.

“Salgo.”

“Salgo…”

“Ci riesco…”

“Dai…”

“Ancora un altro po’…”

Stranamente però s’allontana. Ma non solo: inizia a divenire un’immagine sfocata. Sento che il sogno sta per svanire, quanto vorrei che mi perdessi per sempre in quelle braccia!

Apro gli occhi, sono di nuovo nella stanza. Tutto è rimasto intatto, niente è mutato. Da fuori osservo malinconico il grigiore dei palazzi, il temporale travolgere ogni cosa. Tiro un sospiro, un grosso sospiro. Apro la finestra, conto fino a tre e salto giù.

“Sono morto? Sono vivo?”

Apro ancora gl’occhi, sono coricato sul letto osservando il soffitto cadere in pezzi, tutto andare in pezzi. E stavolta piango realmente, perché non posso far nulla.

Silenzio assordante: l’oscurità continua ad inghiottire ogni cosa.

Nicola Barbarisi, Avellino

La superficie del lago era uno specchio. I raggi del sole , prossimo all’imbrunire, Vi rimbalzavano sopra e trasformavano l’area colpita dalla luce in una sorta di abbacinante ed enorme diamante. Lo specchio d’acqua era circondato da alte colline , le quali non sarebbero mai riuscite ad escludere la vista di un’altissima montagna spoglia coperta dalle cicatrici di antichissimi ghiacciai.

Un movimento sulla superficie, un corpo che emerge e si immerge, emerge e si immerge.

Horis si apprestava a rientrare dal suo giro di pesca – in quel momento si trovava quasi al centro esatto del lago- , di li ad 1 ora lo aspettava un’eccitante conferenza tenuta dal suo docente di astronomia. Egli era un illustre personaggio ed insegnava nella scuola del giovane , l’ High Remote Institute . Era un eccentrico esperto nella sua materia e Horis trovava avvincenti le sue teorie sulla storia dell’universo e la possibilità di vita su altri pianeti anche perché egli stesso fin da piccolo era sempre stato estremamente affascinato dalle stelle e fantasticava spesso su intelligenze o addirittura intere civiltà che prosperavano , ignare le une delle altre , sotto i cieli di mondi remoti.

Girò su stesso e si diresse verso la riva, il bottino non era stato male, quasi 5 kg di pesce che la madre avrebbe sicuramente preparato su una graticola di  brace ardente la sera stessa, era un abile pescatore nonostante il suo fisico più gracile rispetto alla media dei suoi coetanei.

Giunto a riva , si sedette sulla sabbia e si lasciò asciugare dalla tiepida luce del sole  , poi salì sul veicolo, mise in moto ed imboccò la strada che lo avrebbe riportato in città.

– E’ sicuro di inserire questo argomento nella conferenza di oggi signor Kov?- chiese il giovane collega al professore. – Certo mio caro Joben – rispose l’anziano docente – cosa dovrebbe esserci di male?-.

Joben era insegnante di fisica all’ High Remote Institute e provava una stima incondizionata nei confronti dell’illustre professor Kov , autore di numerosi saggi sulla storia del cosmo , sebbene alcuni di essi fossero  stati considerati eccessivi e fuorvianti da una certa parte del mondo accademico.

– Le sia chiaro – continuò Joben – lei sa quanto i suoi scritti mi abbiamo sempre appassionato professore , il fatto è che il nuovo preside , pur essendo senza dubbio un individuo brillante , ha una mentalità analitica e strettamente scientifica . In poche parole , vuole che le lezioni in questo istituto vengano tutte condotte sulla base di fatti comprovati e non ha molta simpatia per le speculazioni e le ipotesi … ehm.. diciamo così… più fantasiose- .

– Fantasiose? – sbottò Kov – mi stupisco di lei signor Joben- , proprio lei che mi conosce cosi’ a fondo dovrebbe ben sapere che le mie teorie si basano su ipotesi ragionevoli e non su stupide speculazioni !- .

– Mi scusi professore, non intendevo offenderla – disse il giovane – spero solo che il preside Rej non abbia nulla da obiettare – .

– Vedrà, vedrà mio timoroso amico , il signor Rej rimarrà anch’egli affascinato dalla mia lezione di oggi pomeriggio – , cosi’ dicendo il professore si congedò.

-Accidenti Horis , hai fatto il pieno oggi!- disse la madre quando lo vide entrare con la grossa sacca , – c’è da mangiare per una dozzina di noi! – . – Va bene mamma –  , rispose lui sorridendo – vorrà dire che inviterò qualcuno. – Si certo , tanto tocca a me pulire poi – finì lei.

La mamma di Horis , Leena , era amorevole e premurosa con il figlio , aveva trovato nell’amore per il suo cucciolo  , l’unico antidoto contro le occasionali ( ma giornaliere ) fitte di dolore che ancora la tormentavano dopo la morte del marito , avvenuta appena 1 anno e mezzo prima.

Vivevano della sua pensione da vedova  , dei suoi lavoretti occasionali e anche di quelli del figlio ( Horis era un giovane giudizioso che trovava sia il tempo per studiare sia per aiutare la madre ) . La loro non era la miglior vita possibile , ma neanche tanto male.

– Io vado mamma, il professor Kov ci aspetta , ci vediamo stasera – . – Va bene caro a dopo allora , si avvicinò al figlio e sfregò la propria guancia sulla sua , in segno di affetto.

La sala della facoltà di astronomia era gremita -probabilmente la metà dei presenti era li per sincero interesse e curiosità  e l’altra metà per farsi beffe del bizzarro personaggio che di li a poco sarebbe intervenuto- . Lungo il perimetro circolare erano disposti moltissimi pali di zinco. I posti in prima fila erano riservati ai giornalisti locali -quasi tutti , chi più e chi meno , annoiati e indisposti per il fatto di dover essere lì a prendere appunti su una tediosa lezioncina di scuola da riportare sul quotidiano della città invece di occuparsi di faccende dal loro punto di vista molto più importanti-. Immediatamente dietro di loro si trovavano insegnanti e alunni della scuola, sul lato destro -sulla parte destra , essendo un cerchio parlare di lato non sarebbe stato corretto – un gruppo di scienziati ed esperti in vari rami scientifici quali fisica, astronomia, biologia , matematica ecc..

La parte sinistra era occupata da uomini di culto -il preside teneva molto ai rapporti con la grande chiesa unita – tra i quali una decina di esponenti del movimento ultraconservatore dei “portatori di luce” , un gruppo di religiosi che sosteneva senza riserve la teoria del “fabbricatore” ,  colui che da solo creò il mondo , l’universo e praticamente la realtà per come la conosciamo.

Per come la vedeva Horis erano soltanto degli invasati del cazzo.

Il  giovane entrò nel grande spazio circolare e si guardò attorno rapito, era la prima volta, da quando frequentava l’istituto, che vedeva la sala quasi completamente piena .

-Ehi Horis da questa parte ! – . Era Rog , un suo compagno di classe nonché il suo migliore amico

-Ciao tesoro , mi hai tenuto il posto? – scherzo’ Horis con il compagno di corso . – Falla finita smilzo, ricordate l’accenno al gracile fisico del nostro protagonista a inizio racconto? , prendi posto e sentiamo questo matto cosa ha da dire- – Kov non è una matto! – rispose Horbis stizzito –  Probabilmente è più intelligente di tutti i presenti messi assieme !-

– Sarà… – borbottò Rog che evidentemente non condivideva la stima che l’amico provava verso il professore.

Comunque sia Horis prese posto e attese l’inizio della conferenza.

-Ha visto che cosa le dicevo?- disse Joben al docente poco prima di salire sul palco , guardi Rej chi ha avuto il coraggio di invitare per metterle i bastoni fra le ruote, quei pazzi seguaci del fabbricatore! –  è abbastanza ovvio che dei membri ultraconservatori di una setta religiosa non sia ben visti all’interno di un covo di scienziati . – Stia tranquillo mio buon amico, so badare a me stesso, rispose il vecchio-. Joben vide nel sorriso di Kov un misto tra sincera tranquillità e una punta di perfida soddisfazione , quella che si prova , a volte , nel cercare di spazzare via tutte le dogmatiche certezze di qualcuno che non si è mai preso il disturbo di mettere in discussione , nemmeno per un istante , ciò di cui è convinto .

Il primo a prendere possesso del palco fu il preside Rej .

Alla sua comparsa ci fu una cacofonia di approvazione ed egli attese compiaciuto un minimo di silenzio per poter prendere la parola . Si appoggiò l’amplificatore sulla testa ed annunciò: – Signore e Signori , sono compiaciuto di tanta affluenza , prima di iniziare voglio dare il benvenuto a tutti voi, in particolare a coloro che vengono da fuori come gli illustri scienziati alla mia destra ( rumore ) e gli egualmente illustri uomini di culto alla mia sinistra ( rumore ). Ora, essendo io un tipo di poche parole , vengo subito al dunque ed ho il piacere di introdurre il professor Erki Kov, una persona stimata , di notevole intelligenza ed anche di notevole eccentricità  – disse strizzando l’occhio, non con complicità ma , vista la scarsa simpatia che correva tra i due , sicuramente con malizia per la conferenza di oggi intitolata “Storia inedita dei pianeti del sistema solare”

Il professore salì sul palco e prese la scena , dopo che il preside si scostò per lasciarlo passare in modo non poco infastidito  : – Benvenuti a tutti e grazie di essere qui , non credevo che avrei avuto tanto successo di pubblico-  risate-. Il docente iniziò la conferenza parlando della storia del sole e di quella del nostro pianeta , ampliando il discorso anche all’intero sistema solare.

Mano mano che il discorso proseguiva in sala scese quel silenzio tipico di quando si ascolta un individuo parlare di un argomento per il quale non è tanto l’interesse per l’argomento stesso a catturare l’attenzione, ma la competenza dimostrata da chi ne parla. In altre parole , alcune persone starebbero a sentire per ore qualcuno parlare di una cosa di cui loro non sanno nulla, solamente per la capacità del narratore di coinvolgerle e fargli notare che lui invece ne sa , eccome.

Horbis ascoltava rapito le sue parole di certo non immaginando che il bello doveva ancora venire.

-Come tutti noi sappiamo, la vita sul nostro pianeta è iniziata circa 5,5 miliardi di anni fa , quando si crearono le condizioni per lo sviluppo della stessa. Ora , non voglio annoiarvi con termini troppo scientifici ma , grossomodo, il nostro pianeta era freddo e inospitale, completamente ghiacciato, la temperatura in superficie era di quasi 180 gradi sotto lo zero. Come immaginate la vita in queste condizioni ( o perlomeno la vita per come la conosciamo noi ) è impossibile.

– Ma accadde qualcosa –

Giungevano borbottii dalle fila dei religiosi e Horbis era convinto che provenissero dai fan del fabbricatore , quei selvaggi non vedevano l’ora di trovare nel discorso dell’amico qualcosa che non gli andasse a genio per poter intervenire  – Ho idea che da qui a poco si creerà un dibattito molto acceso – disse Rog – il migliore amico di Horbis . – E allora? A me piacciono i dibattiti – rispose Horbis, a meno che per dibattito non si intendeva un’ insana e inopportuna discussione.

Il professore notò con piacere che aveva catturato l’attenzione di tutti e continuò: – il sole esaurì l’idrogeno del suo nucleo trasformandolo tutto in Elio e la nostra cara stella divenne una gigante rossa, talmente grande da avvicinarsi al nostro pianeta e riscaldarlo a sufficienza per trasformare , nel corso del tempo e dopo svariate reazioni chimiche ,  il ghiaccio in un liquido adatto per le condizioni di nascita e sviluppo della vita . Acqua signori.

-Che prove ci sono a sostegno di questa tesi? – intervenne Fregh , uno dei portatori di luce. “ Ecco , ci siamo , è intervenuto uno degli scervellati” – penso’ Joben tra divertimento e timore –

– Anni e anni di studi mio buon amico , teorie basate sulla conoscenza della chimica, della fisica e sull’analisi complessa di modelli astronomici comprovati- rispose Kov.

– Mah io credo che voi scienziati forniate sempre prove e teorie molto fumose  – continuò il tizio.

– Beh , sono comunque più plausibili della teoria di un super essere che ha creato tutto dal nulla , vogliamo parlare delle vostre di prove? – , ad intervenire era stato Jiw Bui , astrofisico dal carattere molto irruento.

– Ci siamo amico mio ! – disse Rog sgomitando l’amico. Ad Horbis non piaceva per nulla la piega che aveva preso il discorso , lui era sempre stato per i confronti civili e pacifici , qualsiasi forma di ospitalità lo faceva stare male.

– Come si permette di parlare cosi?- disse un altro membro della “setta” , lei è una persona irrispettosa!-

– Voi siete irrispettosi verso la scienza , verso l’unico vero modo di scoprire la verità ! Stavolta era stato Joben ad intervenire, non senza uno sguardo di rimprovero del relatore, non avrebbe permesso che la conferenza del signor Kov diventasse una sceneggiata.

– Signori , basta così vi prego! – , il preside aveva preso possesso dell’amplificatore  e stava cercando di moderare la folla , – non tollero questo tipo di comportamento da nessuno! – continuò , esigo che tutti i presenti in sala lascino finire l’esposizione del professore diamine!-

La folla si placò un poco ed Erki Kov potè proseguire nella sua esposizione: – come stavo dicendo , miliardi di anni fa la vita comparve sul pianeta e….. –

“ Sei contento pallone gonfiato?”  stava pensando Joben col pensiero rivolto verso il Signor Rej , “ ho visto il tuo sorrisetto compiaciuto quando il professore è stato interrotto, avrai anche incantato la folla col tuo intervento da maschio alfa , ma io so che sei solo un viscido ipocrita di merda”

-……. e dopo 2 miliardi e 500mila anni di evoluzione , eccoci qua, esseri complessi che discutono il miracolo della creazione – , lo disse con una punta di sarcasmo che non sfuggì ne agli scienziati ne tantomeno ai religiosi.

– Ma non è questo il punto – proseguì – il punto è che ho seri motivi di credere che il nostro non sia l’unico pianeta del sistema solare che sia stato capace di ospitare una vita complessa-

Brusii tra la folla , a Horbis parve di sentire dei commenti tipo “ma siamo sicuri che prima di iniziare a parlare abbia bevuto solo acqua ..” e “questo ha letto troppi romanzi.”

-…. o meglio sono quasi certo che forme di vita evolute , se non addirittura una o più civiltà abbiamo abitato , centinaia di milioni di anni prima della comparsa della vita sul nostro mondo , l’estinto pianeta H501 –

– Che cosa?- stavolta l’interruzione veniva da Grekl , uno stimano astrofisico della Piana D’argento – H501? – come può un ammasso di roccia e carbone, un tizzone di brace rovente che vaga nei dintorni del nostro sistema aver ospitato la vita ? Cazzo , lo chiama anche pianeta! Al massimo è un blocco di minerali! –

Horbis conosceva l’eccentricità del professore e le sue teorie rivoluzionare, ma un conto era averle esposte a volte ai suoi studenti al termine delle lezioni , poco prima di congedarsi , quasi come una confidenza , un racconto meraviglioso  , tutto un altro paio di maniche era declamarle davanti a tutti e alla presenza di giornalisti ( seppur locali) e uomini di chiesa , i quali ora si dimenavano più di un branco di pesci senza acqua.

Il preside Rej era allibito , ma in fondo era anche contento , finalmente Kov si stava distruggendo la reputazione con le sue mani. L’odio per il docente era sia accademico che personale , accademico perché Rej non sopportava che quel tale , così stravagante e bizzarro , avesse un quoziente intellettivo non di poco superiore al suo , personale perché la Signora Kov , un tempo era stata la compagna di Rej.

-Se posso rispondere alla sua domanda- disse il relatore , il nostro sole, come lei di certo saprà , non era la gigante rossa che tutti oggi conosciamo come tale bensì una “nana gialla” . Aveva una massa di circa 1,9890 X 10 alla trentesima kg , era quindi notevolmente più piccolo di oggi e la sua temperatura in superficie era di circa 5770 K. Secondo delle recenti stime  che mi sono permesso di fare , sempre che i signori qui presenti non ne facciano un cruccio personale ,  ( stava cominciando a spazientirsi perché non tollerava dibattiti come quello nei quali una delle due parti in discussione non aveva un minimo di collaborazione intellettuale )  , esso si trovava , in quella fase a circa 150.000.700 kilometri da H501. Ho motivo di credere che tale distanza , unita alla composizione della nostra stella , abbia fatto si che su tale pianeta si sia sviluppata la vita e forse una civiltà evoluta  , perché no , addirittura simile ( per così dire ) alla nostra –

– Eresia!- tuonò stavolta Fregh  – non le permetto di parlare in questo modo! –

– NO! – tuonò stavolta il professore – sono io che non le permetto più di interrompere la MIA conferenza , sono stato chiaro?! –

Il rettore era ammutolito , cosi come anche Joben e Horbis , forse gli unici veri seguaci di Kov , il docente era sempre stato un esempio di calma e ragionevolezza , raramente , anzi forse mai , era capitato loro di vedergli perdere le staffe in quel modo .

Per fortuna anche il portatore di luce era stato momentaneamente zittito e questo consentì al professore di proseguire.

-Inoltre volevo aggiungere – continuò con quel minimo di calma ritrovata , e sia ben chiaro che queste sono solo mie ipotesi , mie umilissime teorie e non obbligo nessuno a farne un dogma  – che tra la distanza interposta tra il sole e H501 vi siano stati forse un altro o due pianeti che sono stati disintegrati dal passaggio della nana gialla a supernova dei quali non abbiamo nessuna traccia oggi e sui quali , forse , un paio di miliardi di anni ancora più indietro , possono essersi sviluppate le condizioni necessarie alla vita.

– Professore  – intervenne finalmente Rej ( e non senza la solita punta di soddisfazione )   , io non approvo di certo le reazioni poco ortodosse rispetto al contesto in cui ci troviamo , da parte di alcuni membri della platea , lei però sta mettendo in discussione , senza reali e tangibili prove , il fatto che l’unico pianeta del sistema solare su cui sia mai stata presente la vita , o meglio la vita complessa , a quanto ci è dato di sapere , è il  nostro mondo , Titano –

– Si , infatti , su nessun altro pianeta del sistema solare , è stato trovato nulla fino ad oggi – intervenne un altro astronomo – nemmeno su quello in cui riponevamo più speranze: il nostro pianeta madre , Saturno , di cui noi siamo solo un satellite -.

– Nessun grande passo è mai stato mosso dalla scienza senza che prima qualcuno abbia osato idee che , nel momento in cui furono espresse , non fossero sembrate folli! – disse il relatore stavolta alzando la voce

– Basta! – io me ne vado! – tuonò un anziano del gruppo dei religiosi staccandosi dal palo di zinco sul quale , fino a qualche momento prima era saldamente ancorato grazie alle micro ventose presenti in maniera uniforme sulla liscia pelle argentea-

– Signori ora basta ! – disse di nuovo il preside , ormai però il dibattito si era trasformato in una sorta di lite

– No, basta lo dico io! – terminò il professore staccandosi l’amplificatore dal cranio .

L’amplificatore ( nome tecnico : diffusore ad ampio spettro di onde cerebrali ) era uno strumento che permetteva ad un solo essere di gestire e comunicare telepaticamente in caso fossero presenti in maniera simultanea più di dieci soggetti impegnati nella medesima conversazione.

Gli abitanti di Titano infatti comunicavano solo attraverso onde mentali , il termine “voce” , per questi esseri senza ne bocca ne orecchie stava ad indicare il tono e la frequenza di tali onde.

La situazione era ormai ingestibile , ognuno diceva la sua senza rispettare ne tempi ne tantomeno le buone maniere, ma non tutti erano contrariati della cosa.

I giornalisti erano in parte stupefatti ed in parte entusiasti di poter dare una nota piccante alla tiepida notizia della conferenza la quale , senza un tale e inaspettato epilogo , sarebbe stata sicuramente tediosa a non finire.

Dato che nella sala stava per scoppiare un putiferio, Horbis lasciò l’ancoraggio del suo palo di zinco ed uscì all’aperto.

Un osservatore esterno e totalmente ignaro della realtà di Titano, ovviamente, affacciandosi nella sala conferenze , non avrebbe visto  una folla in preda a grida e non avrebbe sentito alcun frastuono, per via della telepatia come solo mezzo di comunicazione, ma dinnanzi ai suoi occhi si sarebbe palesato un gruppo di creature, tra le quali alcune intente a trascinarsi da una parte all’altra della sala lasciando una sottilissima patina semi-trasparente al loro passaggio e altre che si dimenavano ancora avvinghiate al palo che fungeva loro da sostegno.  Tali esseri muovevano freneticamente strani arti e si sbracciavano, anche se di braccia non si poteva parlare, i loro occhi umidi pulsavano come in preda ad una strana eccitazione , ma la cosa incredibile era che tutto ciò , per chi avesse avuto orecchie umane , era accompagnato da un quasi totale silenzio , spezzato solo da brevi schiocchi e rumori acquosi.

Il giovane rimase eretto sulla sola grossa protuberanza che sorreggeva un corpo glabro e lucente , le 4 lunghe appendici distese lungo il corpo.

Contento di aver lasciato la frenesia della sala conferenze , escluse mentalmente la rissa verbale che avveniva dietro di lui sì, anche questo erano in grado di fare, e si mise ad osservare il cielo.

L’enorme massa di Saturno con i suoi anelli ghiacciati era ben visibile sulla volta grigio-celeste , ed Horbis penso’ a H501 , quel misero ed inospitale resto di pianeta  e non poteva certo immaginare che H501 altri non era che l’estinto corpo celeste che , innumerevoli millenni prima , veniva chiamato Terra.

Pensò anche che sarebbe stato bello se le parole del professore fossero state vere , se li’ , a quell’enorme distanza , miliardi di anni prima , qualcuno si fosse posto le sue stesse domande.

 

Note:

questo racconto ( spero che sia abbastanza riuscito da potersi almeno definire tale ) mi venne in mente una sera , mentre ero supino sul letto e per caso capitai su un canale che dava un documentario sui pianeti del nostro sistema solare. Nel filmato alcuni scienziati ipotizzavano ( o meglio azzardavano ) che quando il Sole muterà la sua forma in Gigante Rossa , distruggerà sicuramente Venere e Mercurio, ma la Terra potrebbe rimanere li’ dov’è ( ovviamente il calore ucciderà tutte le forme di vita e diventeremo solo un inutile roccia ) . Ipotizzavano anche che , aumentando di massa , il sole , avvicinandosi ad esempio a Titano , potrebbe modificare radicalmente la temperatura , la morfologia e la composizione del satellite di Saturno , sul quale , potrebbe in quel caso , nascere la vita , anche grazie allo scioglimento dei suoi ghiacciai .

Questo scenario sarebbe comunque “attuabile” circa 5 miliardi e mezzo di anni nel futuro

Ho pensato che sarebbe fantastico se sarà cosi’.

Alessandro Maramici, Ladispoli

 

 

Dicono che il tempo guarisca le ferite.

È solo una grandissima menzogna, una frase creata ad arte per tamponare con illusoria speranza una parte di sé che sanguina, per raccogliere con fiducia i brandelli di carne spazzati via con immenso dolore dalle circostanze della vita o da chi, ignaro complice del destino, è costretto a conficcare un pugnale nelle profondità di un animo indifeso, semplicemente per adempiere ad un dovere celeste.

Il tempo non guarisce le ferite, il tempo aiuta a comprendere, a trovare spiegazioni, ad accettare.

Il tempo è quel piccolo grande alleato che prende un libro bianco per inciderci sopra una storia scritta con il sangue, per poi tamponarlo con una misera garza sterile in modo tale da non macchiare il resto delle pagine. Il tempo riempie ogni singolo foglio, lo arricchisce di frasi, di risposte, di soluzioni. Spiega e urla ogni volta in cui si accorge che non lo si vuole ascoltare.

Aspetta con pazienza. Dieci, cento, mille pagine ancora… Il tempo è lì.

Aspetta.

Scrive e attende fin quando l’inchiostro finalmente si sostituisce al rosso ematico e si è quindi liberi di vivere nell’illusione di essere guariti. Ma basta tornare indietro, sfogliare le pagine a ritroso per accorgersi che le parole macchiate di sangue sono sempre allo stesso posto, che quella breve o lunga storia scritta con dolore non è stata stracciata via, ma solo allontanata di qualche pagina.

Allora, tornando indietro, gli occhi rivedono i fogli dolenti macchiati per sempre, e con forza e rabbia li sfogliano via, ma le dita, tinte inavvertitamente dai residui color porpora, trasportano la traccia di quel dolore nei nuovi e più tranquilli capitoli, creando un filo sottile fatto di acciaio.

Il tempo è ancora lì. Aspetta.

Aspetta che il libro continui a riempirsi di macchie, di impronte indelebili, di consapevolezza.

Aspetta di scrivere nuove pagine, nuove storie, nuove esperienze.

Aspetta che quei segni tinti di rosso non siano più il ricordo del dolore, ma di un dolce trionfo.

Roberta Capriglione, Roma

Mio padre è una cittadina vuota, silenziosa, dove solo il canto notturno dei grilli anima il paesaggio. Mio padre è anche un ospedale abbandonato, dove non si possono curare le ferite, ma solo immaginare come sarebbe stato ricevere una medicazione dal dottore più importante del reparto. Mio padre è anche una festa affollata, dove il suono è così forte da far girare la testa. In una casa riesco a vedere una donna con il viso adagiato sul cuscino, una lacrima opaca le riga il viso. Chissà, mi chiedo, quale sofferenza ha abbracciato l’animo di quella sconosciuta, lontana. Mia madre invece è il Sole che sorge al mattino e fa cantare gli usignoli, irradia la stanza con la sua risata, quando genuina. Mia madre è anche la Luna, misteriosa, che si sveglia di notte e sorveglia l’oscurità. Mia madre è un albero che non è potuto crescere, piantato in un misero giardino abbandonato a sé stesso. I suoi rami sembrano avvilirsi ogni giorno di più, e nonostante lei sia andata via da quella fredda cittadina silenziosa, ancora scruto in lei palpitii di sofferenza, nostalgia. Chissà, mi chiedo, cosa le manca. Cosa le attraversa il pensiero, al di fuori della preoccupazione mondana dell’esistenza? Mia madre ha poi visitato altre piccole città, eppure, in ognuna di esse, nessuna casa l’è mai sembrata sicura. Vorrei donarle il mondo, così come lei prova a donarlo a me, nel suo piccolo. Oh madre, sai, anch’io ho visto i miei sogni sgretolarsi dietro un pannello di vetro, e non potevo far nulla se non osservare i rimasugli dei desideri perduti, ch’ormai son morti. Tutt’ora mi rivolgo alle stelle e ai pianeti quando chiedo qualcosa ma sai, mamma, io ormai non desidero più. Non desidero più nulla. In me non v’è più alcun desiderio. Io aspetto che la corrente mi faccia muovere, quasi mi muovo d’inerzia, non più un briciolo di brama è presente nel mio animo. Ho solo un unico desiderio che mi divora il petto fino a risalire alla gola. Io vorrei compiere la mia vocazione. Il mio piccolo demonietto ancora non s’è pienamente manifestato, e ciò mi divora. Forse devo solo attendere, ma sai, questa volta disprezzo il non poter conoscere tutto subito. Qual è il mio scopo? Conosco troppo poco mio padre e non riesco a trovare sintonia tra le nostre vite. Anzi, forse qualcosa la conosco. Ma nessuna di queste cose mi spinge a voler intraprendere un viaggio che durerà quanto tutta la mia esistenza. Mamma, secondo te qual è il mio scopo? Quale pensi sia il motivo per cui io son venuta al mondo, per cui io risiedo in questo corpo? Quale pensi sia il motivo per cui voi siete i miei genitori, e cosa ho ereditato da voi? Son troppo lontana da voi, e non riesco nemmeno a sentirmi in colpa per questo. Ho sofferto così tanto da non farmi più sfiorare da nulla e le persone mi hanno ferita così tante volte da sentire di non poter mostrare loro a pieno quanto è immensa e coinvolgente la mia essenza, nemmeno a coloro più vicini a me. Ora sono apatica alla loro esistenza, tanto tutto è solo di passaggio, vero? Niente dura nel tempo, ma niente è perso, questo lo so. Come pensi possa sentirmi dopo che mi è stato strappato via tutto, anche il nome? Pensi che la gente si diverta a giocare con il mio cuore di cristallo? Mi sembra di esser discesa su questa terra perché ho il potere di calmare gli animi, di connettermi con ciò che non tutti vedono, di percepire ogni piccolo movimento. Ho il potere della creazione e della comunicazione. Ma cosa mi porteranno mai tutte queste abilità? Potrebbero giovare un uomo, una donna, un bambino. Ma cosa mi porteranno tutte queste abilità se non sofferenza e incomprensione? La mia voce non m’ammalia, né la mia corazza. Io mi sento viva solo quando provo amore, quando dono amore e quando lascio pezzi della mia anima, in eterno, sulla carta. Forse la mia vocazione è l’amore devoto, o lo spiegare l’amore devoto attraverso delle rime. Ma sai, mi sembra d’esser discesa su questa terra nel momento peggiore; tra odio, rivalità, invidia, menefreghismo, malvagità… io non risuono con tutto questo, mamma, io son troppo sensibile per affrontare questo caos a testa alta! Oh, quanto vorrei potermi dare una risposta. Quanto vorrei potermi leggere dentro, poter leggere il futuro, poter scegliere senza paura di rimorsi che verranno. Forse non posso ancora rispondermi. O forse l’ho già fatto, ma non so d’essermi risposta. Mi vien da pensare che forse è proprio mio questo compito: la ricerca dell’amore. Questa è la mia passione, l’amore religioso che risiede nelle azioni d’espressione creativa. Io voglio portare l’amore nel mondo, voglio diventare amore per il mondo e discendere nel capo d’ogni singolo essere. Voglio brillare di luce perché io la luce non l’ho mai vista, non l’ho mai vissuta. Voglio brillare così tanto da riuscire ad annullare il male. Perché l’amore porta bellezza, e la bellezza devozione, e la devozione fede, e la fede ti fa vivere in ogni attimo per l’eternità. E non avrò desideri, ma ho un’immensa fede nello svolgersi degli eventi perché, nonostante il cosmo, in passato, mi abbia catapultato in voragini buie, m’ha sempre teso la mano nell’atto di risalire. Mamma, io nel mio ventre ho il destino della nostra discendenza e nelle mani ho l’evoluzione dei nostri avi.

Dalila Antonelli, Avellino

LA LAVA

“Mamma, Mamma, attenta! Salta sulla mia nave! I pirati nemici hanno buttato la lava sul pavimento!”

“Enea ti prego, la mamma è appena tornata dal lavoro, è stanca, non ha voglia di giocare”.

Ho lavorato tutto il giorno in tabaccheria, la schiena mi fa male e la testa mi pulsa.

“Mamma, mamma, non è un gioco!”

“Enea, ti prego, stai zitto! Mi fa male la testa, gioca senza far rumore”

Amo mio figlio, giuro, lo amo sul serio, ma sono terribilmente stanca.

Devo crescerlo completamente sola, mio marito ha preso la splendida decisione di sparire mollandomelo.

“Mamma, mamma, attenta! Ci sono i pirati! Mamma, ti prego vieni sulla mia nave!”

“ENEA PER DIO! STAI ZITTO! VAI IN CAMERA TUA!”

Perfetto! Il bambino ha iniziato a piangere, mi sento in colpa, non avrei voluto trattarlo così, ma mi sta portando all’esaurimento.

Vado a preparare la cena, non ho voglia di cucinare, scongelo due bistecche, le metto in padella ed accendo il fornello.

“Enea, la cena è pronta!”

Il bimbo arriva in cucina e mi è impossibile non notare i suoi occhi tristi.

“Mammina, perchè non mi vuoi bene? Io volevo solo giocare con te”.

Sento la sua voce tremare nel dire queste parole.

Guardo il bambino, com’è possibile che sia così stupido? Come può pensare che una madre non ami il proprio figlio?

“Enea ma proprio non riesci a capire che mentre tu giochi la mamma deve andare a lavorare per mantenerti?”

Non sono riuscita a trattenermi.

“Scusa mamma ti voglio bene”

Continuo a mangiare la mia bistecca fingendo di non aver sentito le sue parole, non so cosa rispondere

“Mamma, perchè cucini sempre le stesse cose?”.

Non lo sopporto più, mi sta esaurendo, com’è possibile che proprio non capisca nulla?

Continuo a mangiare la bistecca per calmarmi, è vero, sta roba fa schifo, ma quel bambino è un continuo lamentarsi e fare domande! Dio mio, perchè i bambini fanno così tante domande?

Più ci penso e più mi adiro, la mano precede il pensiero e gli tiro un leggero schiaffo sul volto, deve capire che è sbagliato lamentarsi sempre!


Ahhhh ci sono i pirati! Non mi avrete mai! Oh No! Capitan Uncino ha riempito di lava il pavimento!

Oh! È entrata la mia mamma, devo proteggerla!

“Mamma, Mamma, attenta! Salta sulla mia nave! I pirati nemici hanno buttato la lava sul pavimento!”

“Enea ti prego, la mamma è appena tornata dal lavoro, è stanca, non ha voglia di giocare”.

Uffa, ma perchè non sta mai ai giochi?

“Mamma, mamma, non è un gioco!”

Magari oggi è la volta buona…

“Enea, ti prego, stai zitto! Mi fa male la testa, gioca senza fare rumore”

E’ tutto il giorno che non la vedo, magari se insisto ancora un po’ giocherà con me…

“Mamma, mamma, attenta! Ci sono i pirati! Mamma, ti prego vieni sulla mia nave!”

“ENEA PER DIO! STAI ZITTO! VAI IN CAMERA TUA!”

Non voglio più parlare con la mamma, lei mi odia e non vuole mai giocare con me.

Mi viene da piangere ma cerco di non farlo vedere, voglio che lei pensi che io sia un ometto forte, cammino lungo il corridoio ed entro nella mia cameretta.

Mi siedo sul letto e proprio non riesco a dimenticare le parole della mamma , perché lei non mi vuole? Non mi vuole mai nessuno!

Poggio la testa sul cuscino e non riesco a trattenere le lacrime; papà mi diceva sempre che i veri maschi non piangono, ma non ero riuscito a non farlo quando lui se n’era andato.

Non capisco perchè alla mamma non manchi il papà, a me manca così tanto!

Così come la mamma non vuole mai stare con me, non voleva farlo nemmeno papà, mi sento tanto solo!

“Zuzu, ma tu mi vuoi bene?”

Il mio amico annuisce. La mamma si lamenta del mio mio amico Zuzu, ma lui è l’unico a tenermi compagnia.

La mamma mi odia e io odio lei!

La odio così tanto!

Lei fa solo finta di volermi bene, me lo dice sempre ma non lo dimostra mai…è così cattiva!

“Enea, la cena è pronta!”

Non ho molta fame, la mamma mi prepara sempre le stesse cose e non mi piacciono, però voglio farla felice perciò vado a mangiare comunque.

La mamma non mi parla, così le faccio un domanda: “Mammina, perchè non mi vuoi bene? Io volevo solo giocare con te”.

“Enea ma proprio non riesci a capire che mentre tu giochi la mamma deve andare a lavorare per mantenerti?”

Noto la rabbia negli occhi della mamma, così cerco di rimediare.

“Scusa mamma ti voglio bene”

Non ricevo nessuna risposta, sicuramente lei non mi vuole bene ; mi sto annoiando, c’è tanto silenzio, forse potrei farle un’altra domanda.

“Mamma, perchè cucini sempre le stesse cose?”.

La mamma mi guarda, vedo che si sta arrabbiando, vorrei dirle qualcosa di carino e darle un abbraccio forte, voglio tanto bene alla mia mammina.

Sento la sua mano colpire forte la mia faccia, mi bruciano le guance e mi viene da piangere, odio così tanto questa donna!



L’AUTOBUS

Devo accompagnare Enea a scuola e siamo già in ritardo, gli metto le ultime cose nello zainetto e libero il tavolo dalle tazze con le quali abbiamo fatto colazione.

Lo guardo indossare il cappottino rosso, è un bambino molto grazioso; gli passo le scarpe e lo aiuto ad allacciarle.

Apro la porta di casa, faccio uscire il bimbo, apro il portone e mi accerto che Enea non si avvicini troppo alla strada.

Prendo mio figlio per mano e ci dirigiamo verso la fermata del bus.

Il mezzo è in ritardo come sempre, spero che arrivi velocemente perchè sto facendo tardi per arrivare al lavoro.

Durante l’attesa guardo Enea giocare con i suoi piedini, le scarpette colpiscono ritmicamente il suolo, è un bambino molto delicato.

Dopo pochi minuti arriva il bus e saliamo, come sempre il mezzo è pieno, mi guardo intorno ma non trovo posto per il bimbo, così decido di tenerlo stretto a me.

Le persone sono talmente tante che non riesco nemmeno a riconoscerle, vedo solo una massa informe di colori, e respiro un’aria estremamente pesante.

Il bambino non sembra infastidito dalla folla, anzi, sembra quasi curioso.

E’ talmente impegnato a scrutarsi intorno che non mi rivolge nemmeno la parola.

Sbircio il tempo attraverso il finestrino, è una giornata nuvolosa, alcune gocce scorrono sui vetri appannati; quando avevo l’età di Enea mi divertivo a fissarle scivolare sulle finestre fingendo che stessero gareggiando.

Mi perdo nei ricordi, mi viene in mente il periodo dell’asilo, mi ricordo ancora le mie maestre ed i compagni con i quali giocavo, chissà che fine avranno fatto.

Il bambino mi richiama alla realtà tirandomi delicatamente per un braccio.

“Mami, che cos’ha quel signore in testa?”

Mi giro e vedo che Enea sta indicando un ragazzo dal collo esageratamente lungo, il giovane indossa un cappotto con un bottone cucito nel punto sbagliato, e un buffo cappello con una pittoresca treccia cucita intorno.

“Non lo so patato, ma non indicare”

Guardo Enea fissare il giovane con curiosità, mio figlio è sempre stato molto curioso.

Guardo nuovamente attraverso il finestrino e capisco che dobbiamo scendere, prendo il bambino per mano e dopo aver oltrepassato la porta del mezzo ci dirigiamo verso la scuola.


Uffa! Sono tanto stanco, oggi non ho proprio voglia di andare a scuola!

Bevo il mio latte al cioccolato e mangio tanti biscotti, i miei preferiti sono quelli al cioccolato e quelli a forma di gattino; mi piacciono tanto i gatti.

Appena finisco di fare colazione vado a mettermi il cappotto rosso, la mamma mi aiuta a indossarlo e mi mette le mie scarpe preferite: stivali rossi di gomma; quando li ho indosso mi sento un supereroe.

La mamma apre la porta ed esco nel pianerottolo, c’è sempre un buffo odore, scendiamo le scale ed esco dal portone; tutti gli altri bambini vanno in bicicletta così provo ad avvicinarmi per poter vedere meglio, vorrei tanto saper andare in bicicletta.

La mamma mi prende per mano e ci dirigiamo verso la fermata dell’autobus.

Mi piacciono gli autobus, mi ricordano grandi bruchi, vorrei proprio sapere come funzionano, magari da grande potrei guidarne uno gigante.

Il mezzo non arriva, uffa, è sempre in ritardo!

Mi sto annoiando, inizio a sbattere i piedi sul pavimento, uffa, che noia!

Continuo a fare “tap tap” con i piedi per tre ore e poi l’autobus arriva ; è uno di quelli nuovi, è tutto arancione e verde, sembra una grande carota.

La mamma mi prende la mano e saliamo.

Non c’è posto a sedere, sento la mamma stringermi ed inizio a guardarmi intorno.

Quanti colori, che persone strane! C’è una signora con una buffa camicia da notte rosa, una ragazza con lunghi capelli gialli, un signore con un completo verde e due bambini che guardano le carte dei pokemon.

Un ragazzino inizia a litigare con la sua amichetta dai capelli gialli, credo che lei gli abbia pestato un piede, che brutto che è quel ragazzo!

La signora con la camicia da notte si soffia il grande naso, sembra proprio una patata rossa.

C’è anche un signore che mi ricorda un bradipo, ha gli occhi distanti e la faccia da sciocchino.

Il bradipo inizia a parlare con la signora naso-patata e le lascia il suo posto a sedere.

Magari un giorno saranno fidanzati e avranno un bambino che sembrerà un bradipo-naso-patata; che brutto bambino, continuo ad immaginarlo e per un po’ e mi viene da ridere.

Un ragazzetto attira la mia attenzione, ha il volto rotondo e coperto di brufoli, un collo esageratamente lungo ed indossa un brutto cappello con una treccia cucita sopra.

Questo ragazzo mi ricorda una giraffa e quel cappello sembra un ghiro, è proprio buffo!

Prendo la manica della mamma e la tiro piano per richiamare la sua attenzione.

“Mami, che cos’ha quel signore in testa?”

Indico il ragazzo alla mamma.

“Non lo so patato, ma non indicare”

La mamma torna a guardare il finestrino, come fa a non trovare buffo quello strano tipo?

Le porte si aprono e scendo accompagnato dalla mamma, uffa, non ho voglia di andare a scuola!



DELICATEZZA

Ho sempre desiderato essere una maestra, ho sempre amato i bambini e ho sempre desiderato regalare loro una bella infanzia  sarei felice se i miei alunni potessero ricordarmi.

Tra tutti i miei studenti ce n’è uno che ho sempre guardato con dolcezza: Enea.

Enea è un bambino molto delicato, è diverso rispetto ai suoi compagni, a volte temo non riesca ad integrarsi con loro.

Il bimbo sta sempre solo, gioca da solo e a volte parla da solo.

I suoi compagni lo guardano con superiorità e spesso lo prendono in giro.

La delicatezza di Enea mi ricorda quella di mio figlio Marco, mi manca tanto il mio bambino, vorrei potergli parlare un’ultima volta.

Enea sta disegnando mentre suoi compagni  si stanno fingendo supereroi, a volte ho paura possa sentirsi solo.

Guardo il disegno e noto che ha raffigurato un fiore, sembra un “non ti scordar di me”.

Il bambino prende il disegno e si avvia verso una sua compagna di classe.

“Guarda maestra! Enea sta regalando un fiore a Virginia!”

Sento le parole di Francesco, ha un tono canzonatorio, sembra voglia prendere in giro il compagno.

“Francesco, Enea sta facendo una cosa molto bella! Virginia dovrebbe sentirsi fiera!” rispondo con tono leggermente severo.

Francesco non mi è mai piaciuto, è un bambino prepotente, arrogante e si crede superiore rispetto ai compagni.

Molti bambini girano intorno a Francesco, è come se fosse il capo, lui ottiene sempre ciò che vuole e tutti lo temono.

Non capisco come i bambini possano preferire Francesco ad Enea.

Scaccio velocemente questo pensiero, sono la maestra e non posso fare preferenze, non posso, ma proprio non riesco a non farle.

Inizio a giocare con alcune mie alunne, le aiuto a cambiare vestiti alle loro bambole e mi perdo nelle storie che inventano, ho sempre ammirato la fantasia dei bambini.

Mi giro e noto che Enea sta tenendo delicatamente la mano di Virginia, le gote del bimbo sono leggermente arrossate e mostra una delicata felicità.

Ho sempre ammirato la delicatezza che solo i bambini posseggono.

Non mi preoccupo più di Enea per tutta la giornata, vedo Francesco stuzzicarlo, ma lui non risponde alle provocazioni.

Enea è intelligente, sensibile, fantasioso e delicato; spero che non perda queste sue qualità infantili, gli adulti le condannano, ma sono tutto ciò che rende speciale una vita umana.


Che palle, detesto andare all’asilo!

Tutti mi odiano e io odio tutti, i miei compagni sono stupidi! Enea soprattutto, ho sempre odiato quel marmocchio frignone.

La maestra è insopportabile, falsa, vecchia e brutta ; non gli sono simpatico, anzi, mi odia.

Appena entro nella scuola vengo raggiunto da Maggiorino,Narciso e Pierluigi, loro sono i miei amici, fanno parte del mio gruppo, sono tipi giusti.

Io sono il capo, è normale sia così : sono il più intelligente di tutto l’asilo!

Vedo Virginia giocare con le bambole, è bellissima! La bambina più bella di tutte.

Vorrei tanto impressionarla, decido così di giocare ai supereroi ; ovviamente dico a quei tre scimmioni dei miei amici di perdere gli scontri, lei deve vedere che sono io il più forte.

Mentre picchio Maggiorino vedo Enea disegnare, che sfigato! Sicuramente non fa il supereroe perchè ha paura di essere picchiato.

Enea sta sempre solo, è veramente uno sgorbio! Vorrei così tanto picchiarlo, sembra una bambina, dovrebbe iniziare a fare cose da maschio!

La maestra mi sta guardando, lo fa sempre, si diverte a guardarmi male come se fossi un mostro, perchè non capisce che il vero mostro è Enea?

Maggio mi colpisce la testa e tenta di buttarmi a terra.

“Stupido! Perchè non capisci che io sono Superman e tu sei un idiota? Non puoi colpirmi da dietro”

“Scusami Cesco, non lo farò più”

“Sarà meglio brutto sfigato”

Lo colpisco forte sulla faccia, come ha potuto cercare di umiliarmi così?

La maestra come al solito non si accorge di niente, sta ammirando quello stupido Enea disegnare.

Oh Enea è così bravo, oh Enea è così carino, Enea qui, Enea la, gne gne gne, perchè parla sempre e solo di quel roito! Fossi in lui mi vergognerei di esistere.

Colpendo Pier sugli stinchi vedo Enea dirigersi verso Virginia, non so cosa fare, decido così di umiliarlo davanti a tutti.

“Guarda maestra! Enea sta regalando un fiore a Virginia!”

Sicuramente adesso tutti lo prenderanno in giro.

“Francesco,Enea sta facendo una cosa molto bella! Virginia dovrebbe sentirsi fiera!”

Ecco, quella strega come al solito cerca di mettermi in imbarazzo, ma non ci riuscirà mai, tutti sanno chi è il più forte.

Per ribadire la mia forza tiro un calcio nella pancia di Ciso, tanto la maestra come al solito non mi guarda, ha occhi solo per il suo cocco; che poi secondo me quello più che cocco della maestra i cocchi li ha nel cervello.

Lo fisso mentre porta il disegno a Virginia.

Cosa? Lei è felice? Felice perchè quello sfigato le ha portato un disegnino? E’ un’ora che le faccio vedere quanto sono forte , e lei preferisce un disegnino? Quello sfigato non ha capito chi comanda.

Virginia arrossisce e gli porge la mano, brutta cicciona, da domani la chiamerò così, spero che impari la lezione, se lo preferisce a me sarà sicuramente sfigata quanto lui.

La maestra gioca con le bambole, ne approfitterò per dare una lezione a Ciccerentola e al principe marrone.

Come fa a preferirlo a me? Lui non sa nemmeno come nascono i bambini.

“Virginia, ma ti sei mangiata quello sgorbio di Enea? Ah no,è lì, scusami sgorbio, non ti avevo visto, sai, sei alto come un tappetto”

” Non essere cattivo con Virginia, lei è tanto carina; e poi non sono basso, la mia mamma dice che sono giusto, sono alto un metro e trenta tre”

“ma trenta tre cosa? Fragoline? Poi chissà com’è tua madre, se ha un figlio così stupido sicuramente non saprà nemmeno contare”

“Ehi, io non sono uno stupidino”

” Fammi indovinare, te l’ha detto la tua mammina?”

“No, lei non vuole mai giocare con me”

” Ci credo! Chi vorrebbe mai giocare con uno schifo come te?”

“Lei dice che non gioca con me perchè deve lavorare”

“Fammi indovinare che lavoro fa, la troia giusto?”

“Che cos’è una troia?”

Non mi aspettavo questa domanda, non so cosa sia una troia, lo dice sempre papà alla mamma, non credo sia un bel lavoro perchè quando lui lo dice lei si arrabbia sempre

“come fai a non saperlo? Sei proprio stupido! La troia è la persona che scarica banane nei porti”

Ho citato il primo lavoro brutto che mi è venuto in mente ; una volta ho guardato un film con papà e i personaggi che scaricavano banane sembravano scontenti.

“No, lei vende le sigarette alle persone grandi”

” Il mio papà fuma perchè è un vero duro, un giorno anche io lo farò, tu non avrai mai il coraggio sgorbietto”

” La mia mamma dice che fumare fa male”

” Bhè perchè tua madre è una sfigata, proprio come te”

” La mia mammina non è una sfigata, lei s’impegna tanto per farmi stare bene, mi compra anche i biscotti al cioccolato di Mister miao”

” Mangi ancora quei biscotti per poppanti? Dovresti bere solo il latte col caffè a colazione, come i veri duri, come me”

Prima che possa rispondere gli tiro uno schiaffo su quel faccino da poppante che si ritrova, ha il terrore negli occhi, che sfigato.

Ovviamente lui non reagisce, ha capito chi è il più forte.

Mi giro verso la classe, li vedo ridere, anche loro lo odiano.

“Visto sfigato, tutti ti odiano”

La maestra si gira a guardarmi, così faccio finta di nulla e torno a fare il supereroe.

Mi giro un’ultima volta verso lo sfigato e vedo che Virginia gli dà la mano, perchè a me non la dà mai nessuno?


NON TI SCORDAR DI ME

“Nonna, nonna! Andiamo a fare un giro?”

” Va ben Marco, ma facemmu veluce che da chi a’n po a l’ ariva teu moae”

Amo la mia nonna, mentre la mamma lavora io sto con lei e giochiamo insieme.

La nonna è una grande esperta di fiori perciò mi piace molto passeggiare con lei, mentre camminiamo mi parla di piante e a volte le raccogliamo e le portiamo al nonno.

Mi metto le scarpe ,prendo una felpa, aspetto la nonna e usciamo.

La nonna non sa l’italiano, parla solo in dialetto, così mentre stiamo insieme lei comunica esclusivamente nel suo strano idioma.

Il suo libro preferito è “I racconti di Nick Addams” di Hemingway , probabilmente perchè faticando a leggere aveva letto solo questo.

Mentre camminiamo lei mi racconta le storie di Nick, ed io vorrei essere proprio come lui.

“Nonna che fiori sono questi?”

“‘Ste chi sun margherite, mi sun alergica”

“Che belle che sono nonna, sono così delicate”

“Sun i me’ scioi preferiti”

La nonna è allergica alle margherite, eppure le ama.

Come può amare qualcosa che le fa male?

Camminando mi guardo intorno, ci sono tanti fiori colorati: le rose sono rosse, rosa, bianche e poi gialle! Come fa lo stesso fiore ad avere tanti colori?

Ho sempre amato i colori, a volte disegno mille fiori colorati e la nonna li appende.

Stiamo proseguendo, probabilmente saremmo arrivati in cima a Trivori per ammirare il mare.

Trivori è il posto più bello del mondo! Ovunque tu vada puoi vedere la natura, il mare e le bellissime crose.

Quando sarò grande scriverò di Trivori e della nonna.

“Nonna, e questi? Che fiori sono?”

“Ste chi sun pionie”

“Oh nonna, che belle le peonie!”

La nonna mi sorride e ne raccoglie una

“Portala a u nono, u l’ama e pionie”

“Sì sicuramente! Magari la pianterà!”

“Seguo, stèlin”

La nonna mi chiama sempre “stèlin” che vuol dire stellina.

Continuo a camminare stringendole la mano, mi piace sentire il calore che le nostre mani emanano.

Voglio un bene infinito alla nonna, la amo più di qualsiasi altra cosa, non potrei vivere senza di lei.

Ci fermiamo a raccogliere alcune fragoline, mi piacciono molto e la nonna lo sa, lei ne raccoglie tante, mentre io un po’ meno.

Raccogliendo le fragole vedo piccoli fiori azzurri.

“Nonna e questi cosa sono?”

“Ste chi sun..”

“Nonna, dimmelo in italiano”

“Scusa, sono: non ti scordar di me”

“Che belli nonna, sono i miei nuovi fiori preferiti!”

La nonna ne raccoglie uno e lo appunta sulla mia camicetta delicatamente.

“Me arecomando Marco,” non ti scordar di me”, nisciùn ti voèi bén ciù de mi”

Ascolto le parole della nonna, so benissimo che nessuno mi amerà mai più di lei.

Mentre cammino continuo a girarmi intorno, ruscelli, mille colori e tanti alberi.

Quello è un ciliegio, la nonna mi ha insegnati a riconoscerli.

Vorrei prendere delle ciliegie ma vedo che la nonna sta faticando, continuiamo a camminare, imbocchiamo una ripida crosa chiamata “Suscia” ed arriviamo a “Cimamonte”.

Cimamonte è sempre stato il mio posto preferito, la collina sembra strapiombare sul mare e se alzi le mani sembrano sfiorare il cielo.

Durante la guerra molti partigiani morirono qui, anche il fratello della mia nonna.

Lei mi aveva sempre raccontato che spararono allo zio Giacomo in questo posto, e che il suo corpo rotolò fino al paese, portando rabbia e terrore tra i cittadini.

Quando sarò grande vorrei essere come lo zio, un ragazzo forte e coraggioso.

Anche io un giorno vorrei morire qua, come un vero eroe.

La nonna mi prende per mano e iniziamo a scendere la collina verso casa.


L’ultima volte che ho camminato su questa strada ero un bambino ed ero accompagnato dalla nonna; lei morì il giorno dopo, e io non andai mai più a Trivori.

Non ricordo bene la strada per Cimamonte, così cerco di andare a memoria.

Camminando vedo molte persone anziane, loro mi conoscono come “il nipote di Piero e Nina”,sono felice per questo, mi mancano molto i miei nonni.

Camminando vedo una margherita, chissà come facevo a trovarle belle da bambino, sono terribilmente ordinarie.

Mi ricordo che la nonna le trovava meravigliose, come poteva trovare la meraviglia nelle piccole cose? Io non sono capace.

Camminando vedo le crose, ma le ricordavo più colorate.

Camminando vedo le case, ma le ricordavo più colorate.

Camminando vedo i fiori, ma li ricordavo più colorati.

Sono arrabbiato con me stesso, com’è possibile che non riesca più a meravigliarmi?

La verità è che il mio mondo sta diventando grigio, io sto diventando grigio.

Mi guardo intorno e capisco di essere arrivato a Cimamonte.

Quando ero piccolo questa strada mi sembrava lunghissima.

La verità è che anni fa ammiravo i fiori, le case, gli animali e le piccole stradine.

Ogni “crosa” era piena di vecchiette, le ricordo ancora tutte, sento ancora le loro voci parlare in genovese, le vedo salutarmi e pizzicarmi le guance.

Perchè la nonna riusciva a trovare la meraviglia in tutto? Perchè la nonna riusciva ad essere innocente? Perchè la nonna è riuscita a rimanere bambina? Perchè io non ci riesco?

Capisco la nonna che amava le margherite anche se le facevano male, io amo l’alcol anche se mi fa male, io amavo la mia vita, ma mi faceva troppo male.

Mi manca tutto della mia infanzia, ma soprattutto mi manca me stesso.

Mi avvio verso il luogo dove morì lo zio, mi appunto un “non ti scordar di me” sulla giacca, e inevitabilmente penso alla nonna guardandolo.

“No nonna, non ti scorderò mai”

Infilo la mano in tasca.

Ascolto un’ultima volta gli uccellini cantare.

“Chiedo scusa a tutti i bambini che soffriranno quando capiranno di aver perso la meraviglia, chiedo scusa ; ma non posso sopportare di vivere sapendo di non essere più innocente, ingenuo e delicato, non posso vivere sapendo di dover sopravvivere in un mondo grigio, e non posso vivere sapendo di essere uno di quei mostri capaci di fare così tanto male”

Mi appunto meglio il fiore sul petto, non voglio che cada, cerco in tasca e finalmente trovo quello che stavo cercando, penso alla nonna e sbatto le palpebre per l’ultima volta.



COMMENTO FINALE

Vorrei dare una breve spiegazione dei racconti per poterne aiutare la comprensione.

Le quattro storie sono molto semplici e all’apparenza non sembrano collegate; ci appaiono come quattro episodi distinti, invece, esiste un un filo capace di accomunarle.

Il linguaggio usato dai personaggi è molto semplice: quello di Enea è tipico di un bambino, tuttavia è presente una certa maturità; quello usato da Francesco è quello di un infante rozzo, che tenta di emulare il linguaggio degli adulti apparendo quasi grottesco; quello della madre è tipico di una donna normale, a tratti arrabbiata e risentita e a tratti dolce; quello della maestra invece è quello di una donna di media intelligenza, che tenta però di ostentare il suo intelletto apparendo superficiale.

L’unico personaggio positivo all’interno dei racconti è Enea, il bambino è sensibile e delicato, e nonostante sia sofferente riesce a sopravvivere grazie alla sua fantasia.

Enea è l’incarnazione della positività tipica dell’infanzia, della semplicità e dell’innocenza.

Il bambino ha il dono più bello di tutti: la fantasia ,che  è capace di farlo vivere in un mondo colorato e di proteggerlo, il bimbo si rifugia continuamente in essa, per lui è come un’arma di difesa dalla vita, che presto inizierà a schiacciarlo.

L’apparizione di “Zuzu” è molto breve e sembra insignificante, tuttavia diventiamo a conoscenza del fatto che il bambino si sia creato un amico immaginario; il suo comparire solamente una volta e di sfuggita ci fa intendere che Enea sappia che il suo amico non esiste, ma che ogni tanto abbia bisogno di lui per sentirsi rassicurato.

In Enea troviamo anche un pensiero totalitario, tipico dei bambini (o è tutto nero, o tutto bianco),nel primo racconto usa la parola “odio” e subito dopo”amore”, poiché fatica a codificare ciò che prova e a trovare vie di mezzo, o sostiene di odiare la madre o di amarla, credo che questo sia dettato da un’immaturità emotiva che sparirà con la crescita.

Francesco, nonostante sembri un personaggio totalmente negativo, in realtà è innocuo ; il bambino non è stato caratterizzato, si sa poco di lui, conosciamo infatti solo i suoi tratti negativi, tuttavia non sappiamo da cosa sia dettata la sua “cattiveria”.

Francesco è l’incarnazione della negatività tipica dei bambini che non apprezzano l’infanzia, dal suo linguaggio si evince una smania di crescita, forse dettata da situazioni negative alle quali deve sopravvivere, oppure dalla sua voglia di sentirsi ammirato ; non sapremo mai il motivo del suo comportamento prepotente, possiamo solo cercare di capirlo, ricordandoci che nonostante la sua “cattiveria” è un bambino, e che come tutti i bimbi ha bisogno d’affetto.

Il suo essere verbalmente e fisicamente violento è solo un modo di ottenere rispetto, un modo per sentirsi considerato.

Più volte durante il terzo racconto il bambino sostiene che la maestra non lo consideri, credo che il suo comportamento sia negativo per attirare le attenzioni della donna , probabilmente se lei al posto di giudicarlo lo avesse supportato ,lui avrebbe potuto essere una figura positiva, i bambini non nascono cattivi, lo diventano.

Il suo comportamento può essere dettato anche dall’invidia verso Enea (che viene apprezzato sia dalla maestra che da Virginia), poiché a differenza di lui non si sente accettato, capendo di non avere la purezza, l’ingenuità e l’innocenza, che nonostante prenda in giro, probabilmente vorrebbe avere.

La mamma è un personaggio particolare, sostiene di amare il figlio ed effettivamente si preoccupa di lui, non ha un brutto rapporto con il bambino, tuttavia fatica immensamente a comprenderlo.

Il suo personaggio rappresenta la morte dei “valori infantili”, la donna infatti si preoccupa molto del lavoro ma poco del figlio .

All’interno del secondo racconto tenta di ricordare la sua infanzia, ma non riesce a farlo appieno perchè è troppo ancorata al presente.

La sua incapacità di ricordare l’infanzia sfocia nell’incapacità di comprendere il figlio, si lamenta del suo essere lamentoso e del suo continuo fare domande, tuttavia la curiosità e l’onestà del bambino sono ciò che manca a lei, che oramai vive una vita all’insegna della sola sopravvivenza.

Posso immaginare sia una madre al limite dell’esaurimento, ha poca voglia di cucinare (lo stesso bambino si lamenta del fatto che la madre prepari sempre le stesse cose),sull’autobus a differenza del figlio è incapace di vedere i “colori” e vede tutto “grigio” , credo che questa sia la metafora perfetta per spiegare la sua esistenza ,il suo diventare adulta ha coinciso con la perdita della capacità di vedere le cose a colori (curiosità e fantasia), e con il suo vedere tutto in maniera grigia (una vita vuota e atta alla sola sopravvivenza).

Dal suo linguaggio possiamo evincere faccia le cose con una certa meccanicità, infatti più che pensieri ed azioni le sue sembrano un elenco, fa tutto senza godersi nulla e senza mai fermarsi per riflettere su se’ stessa.

Il figlio si chiede perchè la madre non si preoccupi per la partenza del padre, probabilmente la donna ha sofferto molto per questo, e così come non ripensa alla sua infanzia non lo fa con l’abbandono.

L’infanzia fa un certo effetto alla donna, che necessita di ancorarsi al presente per poter sopravvivere.

Il padre non è presente fisicamente all’interno dei racconti ed il suo abbandono sembra vissuto in maniera estremamente superficiale, in realtà è solo un pretesto: il figlio ne parla in maniera superficiale poiché è piccolo ,nonostante sia estremamente sensibile deve ancora elaborare il suo dolore ,e gli effetti dell’abbandono si vedranno con il passare del tempo; la madre invece ne parla con un velato disprezzo e con quella che sembra noncuranza, in realtà posso immaginare sia un evento che ha colpito molto la donna, perciò preferisce non pensarci e continuare a vivere meccanicamente.

La maestra è il personaggio più superficiale, parla del suo amore per i bambini ma non è capace di dimostrarlo, prova a fare gesti positivi ma non riesce nel suo intento.

Il suo personaggio è la rappresentazione della mediocrità tipica di alcuni adulti: prova a fare discorsi profondi sulla bellezza dell’infanzia ma non riesce a portarli a termine, il suo discorso è estremamente superficiale, prova a parlare di argomenti che non comprende nella speranza di giustificare a se’ stessa il suo essere una persona vuota.

Della maestra non sappiamo nulla, l’unica cosa di cui siamo a conoscenza è la morte del figlio Marco.

Vuole apparire come una donna intelligente, ostenta però un’intelligenza inesistente, vuole apparire come una persona sensibile e giusta, ma quando riprende Francesco lo fa dicendogli che sta sbagliando, senza però spiegargli quale sia l’errore, altro segno di superficialità ; fa sentire in colpa il bimbo senza spiegargli come migliorare.

Il suo giudicare Francesco è la falla più grande del suo personaggio; lei che dovrebbe insegnare ai bambini come crescere è la prima a giudicarli, nel suo goffo tentativo di aiutare Enea sembra quasi tentare di sminuire Francesco, non è capace di comprendere i suoi alunni (nonostante voglia far credere di capirli benissimo).

Il suo discorso sembra quasi un discorso a vuoto, sono solo parole buttate al vento.

Come già detto il suo personaggio è la rappresentazione della mediocrità, è brava a parlare quando sono i suoi alunni i soggetti, ma non ha saputo aiutare suo figlio, non è riuscita a comprendere il ragazzo però si vanta di comprendere Enea.

Durante il terzo racconto capiamo però che lei, nonostante spenda ottime parole per Enea, non fa nulla per aiutarlo ; il bambino continua a sentirsi escluso, e involontariamente esclude anche Francesco , il secondo bambino però cerca di compensare il suo senso di “esclusione”, mentre il primo non riesce ad integrarsi da nessuna parte.

La donna non capisce queste cose, lei non si mette mai in discussione credendo di essere dalla parte del giusto.

Marco è la personificazione dello scontro tra infanzia ed età adulta, come degli altri personaggi sappiamo poco di lui, tuttavia siamo a conoscenza del fatto che si suicidi dopo aver capito di aver perso per sempre il suo lato infantile.

Durante la camminata in campagna il ragazzo capisce di non riuscire più a vedere le cose con la stessa meraviglia con cui le ammirava da piccolo.

La perdita della “meraviglia” per il ragazzo è insopportabile, si sente schiacciato da un futuro vuoto e grigio (come quello di sua madre o di quella di Enea),e piuttosto che sopravvivere nella mediocrità preferisce la morte.

In realtà è un giovane molto sensibile, e questo gli provoca un’enorme paura del futuro ; lui non vuole vivere per servire la società e per “andare avanti” (vedi la meccanicità della mamma di Enea), lui vuole vivere per lo stupore, la meraviglia e la delicatezza, tutte cose assenti nella società odierna.

Il ragazzo sentendosi soffocato decide così di morire.

La sua morte rappresenta quella dei valori infantili quando si entra nell’età adulta, morte necessaria per poter far parte della società.

Marco si uccide poco prima che la sua visione “colorata” del mondo diventi del tutto “grigia”, non dovendo così vedere com’è in realtà il mondo.

I “non ti scordar di me” rappresentano una preghiera implicita: Marco regala un disegno che li raffigura alla sua prima cotta, nella speranza che lei, anche da adulta, possa ricordarsi di quella delicatezza ; la nonna di Marco li fa vedere al nipote, perchè sapendo che la sua vita sarebbe stata breve, spera che lui possa ricordarsi di lei e della meraviglia ha provato vedendoli la prima volta ; il ragazzo guardandoli però, oltre a ricordare la nonna, capisce di non riuscire più a vederli con la stessa meraviglia con cui faceva un tempo, appuntandosene uno sulla giacca spera che le persone vedendolo possano capire che lui vorrebbe essere ricordato, prega che il mondo al quale non è riuscito a sopravvivere, possa ricordarlo come una vittima innocente, innocenza che però lui sa di aver perso.

Tornando all’argomento esposto all’inizio del mio commento, ovvero il collegamento presente tra i racconti, spero che tutti abbiate capito che il filo legante è : Enea, ovvero l’infanzia.

Tutti i racconti girano intorno ad Enea ed ai valori da lui rappresentati.

Tutti i personaggi sono in un qualche modo legati al bambino:la madre, Francesco, la maestra e anche Marco, nonostante infatti i due non si siano mai conosciuti, il giovane uomo è la rappresentazione adulta del bambino.

Enea inoltre è presente in tutti i racconti, nei primi tre direttamente e nell’ultimo indirettamente ; Enea è infatti il bambino a cui Marco chiede scusa.

I racconti  evidenziano un circolo vizioso: i personaggi come Enea faranno la fine di Marco(perchè troppo sensibili per sopravvivere),quelli come Francesco diventeranno come la mamma di Enea (avendo avuto troppa fretta di crescere hanno perso la propria infanzia, e si ritrovano a dover sopravvivere), e quelli come la madre di Enea diventeranno come la maestra (dopo una vita passata a sopravvivere nella mediocrità inizieranno ad insegnarlo ai bambini).

Tutti i racconti ci mostrano i valori dell’infanzia e come essi cambino nell’età adulta, come sia difficile farli coesistere, e che prima o poi i primi verranno inevitabilmente schiacciati dai secondi.

Gli episodi evidenziano anche quanto sia speciale l’infanzia, e quanto se fossimo capaci di portare la meraviglia, la delicatezza, l’innocenza e la spensieratezza nell’età adulta potremmo smettere di sopravvivere ma potremmo iniziare a vivere.

Marianna Danovaro, Genova

9:00

La sveglia quella mattina non era suonata. Jonas la pospose un paio di volte prima di rendersi conto dell’ora e sapendo di doversi sbrigare lanciò via le coperte stizzito, rimanendo seduto cinque minuti a fissare il vuoto prima di alzarsi. Entrò nel bagno e con fare molto stanco, si tolse l’intimo che aveva in dosso entrando nella cabina. L’acqua non si regolava bene, la caldaia da qualche tempo presentava problemi ma sembrava non curarsene. Una volta finito, si lavò i denti e la faccia. Aveva delle occhiaie evidenti, d’altronde erano notti intere che non chiudeva occhio. Poi, si vestì con la solita camicia azzurra, un paio di pantaloni neri e delle scarpe omologhe. Si preparò il solito pranzo a sacco e successivamente uscì di casa.

9:30

Camminò lesto in mezzo alla marmaglia di persone che si precipitavano, proprio come lui, ad un’altra giornata di schiavitù. Prese la metro e si sedette in disparte. Tutti avevano gli occhi incollati al proprio schermo. Colletti bianchi, studenti e tanti altri. Nessuno guardava l’altro, nemmeno per un’istante. Tirò fuori dalla sua tasca gli antidepressivi, ne prese un paio e dopodiché mise le cuffiette alle orecchie. Era il suo unico modo per sfuggire dalla realtà, per sfuggire al sussurro dei demoni. Hey You dei Pink Floyd era l’unica cosa che riempiva di colore quello sfondo grigio e triste.

10:15

Una volta arrivato in ufficio gettò con la coda degli occhi uno sguardo ai suoi colleghi. Non amava stare in mezzo alle persone specialmente in ufficio, luogo dove si sentiva ancora più a disagio. Tutti, con grande alacrità e lo sguardo basso svolgevano i loro compiti. Il suo capo, Ben, era un uomo buono in fondo. Pensava solo al bene dell’azienda e dei suoi dipendenti anche se quando si presentava l’occasione di usare il pugno di ferro, non perdeva l’occasione di esercitare la sua autorità. Questa, però, terminava fra quelle mura. Come ogni piccola azienda, dipendeva da un’altra ancora più grande e così via. Era schiavo, proprio come noi. Jonas prese un caffè dalla macchinetta. Sembrava tutto fuorché quello però era l’unica cosa che gli permetteva di affrontare la mattinata. Si mise poi alla sua postazione quando la sua migliore amica, lavorante anche lei lì, si presentò alla sua scrivania. Si chiamava Layla e si conoscevano fin da piccoli. Lui aveva perso da poco sua madre in un incidente. Era in auto con il padre quella sera, era il loro anniversario. Ad un incrocio, un camion guidato dal conducente palesemente ubriaco, li travolse in pieno. Lui uscì indenne non si sa come, lei purtroppo morì qualche ora dopo in ospedale. Decise allora di trasferirsi, di cambiare aria. Il giorno in cui approdarono nel nuovo quartiere, Layla stava giocando sull’altalena. Avevano entrambi otto anni e lui subito si innamorò a prima vista di quegli occhi azzurri come il mare. Erano trascorsi da allora più di vent’anni e mai ebbe il coraggio di dirglielo.

Layla: “Hey tesoro (lo chiamava sempre così quando doveva chiedergli qualcosa) come va?”

Jonas: “Ciao…si va avanti, credo. Dimmi pure, ma veloce poiché sto lavorando.”

Layla: “Ma come non ricordi? Oggi è il mio compleanno, stronzo. Mi fa piacere che ti sia ricordato e grazie per gli auguri. Comunque sia, avrai avuto i tuoi pensieri per la testa come al solito quindi tranquillo. Stasera do una festa a casa mia e vorrei venissi anche tu. Alle 20:00, sii puntuale così dai anche una mano a preparare.”

Jonas odiava le feste. Persone che non si scambiavano mai la parola fingevano di essere grandi amici. Si parlava di cose futili come ragazze, sport e altre cazzate di vario genere. Poi tutto quel rumore, le urla stridule, tutte quelle persone vicino a lui lo mettevano molto a disagio. Ma era pur sempre la migliore amica, quindi…

Jonas: “Certo, stai tranquilla.”

Layla: “Bene a stasera allora.”

In quello stesso istante un uomo, Mikael, dall’altra parte della città aveva già programmato la sua di serata. Era rimasto disoccupato, pieno di debiti da saldare e senza nessuno accanto. La moglie morì tempo prima a causa del cancro e i suoi due figli, dopo la sua morte non si fecero più vedere.

13:00

La pausa pranzo era uno dei momenti meno dolenti della giornata. C’era un parchetto nelle vicinanze, si radunava sempre su quelle panchine. Quel giorno, mentre stava tirando fuori il suo pranzo, osservò una madre intenta a giocare con suo figlio. Un senso di malessere pervase il suo corpo, pensando che lui quel tipo d’affetto non lo ricevette mai. Neanche una volta. Suo padre era sempre fuori per lavoro ed ogni volta che i due intraprendevano una conversazione, non faceva altro che parlare della sua squadra del cuore e di soldi. Già…fin da piccolo avevo aperto gli occhi sull’aspetto reale delle cose, sulla mano invisibile che controlla tutto e tutti. I pensieri sovrastarono per un attimo. Le voci iniziarono ad assillarlo, a toglierli la capacità di controllarle. Fino a che il bambino cadde per terra, sbucciandosi il ginocchio. La madre lo rimproverava e lui non ne capiva il motivo. Perché privarli della libertà? E soprattutto della capacità di autoresponsabilizzarsi? Smise però di pensare e cercò di consumare il suo pasto. Lo stomaco era chiuso, non entrava niente. Sulla strada di ritorno per l’ufficio Mikael gli passò accanto e lui ebbe una strana sensazione. Sul marciapiede vide un senzatetto, si avvicinò e gli consegnò il pranzo e qualche spicciolo. Poi tornò a lavoro.

18:00

La giornata lavorativa era finita. Era un loop infinito senza alcuna via d’uscita. Ogni giorno, quando consegnava le ultime scartoffie, provava lo stesso vuoto. Iniziava e finiva tutto allo stesso modo. Era prigioniero e lo sapeva, purtroppo però era costretto ad adattarsi. Una parte di lui, nel profondo, rifiutava tutto questo. Prese di nuovo il tram e fece ritorno a casa. Aprì il pacchetto di sigarette appena comprato e si gettò sul letto. Quella casa era un vero schifo; non si riusciva a capire da quanto tempo non gli venisse data una ripulita o al minimo una sistematina. La confusione la faceva insomma da padrona. Gettato il mozzicone sul pavimento, decise di riposarsi almeno un’oretta prima della festa. Gli occhi però non riuscivano a chiudersi. Continuava a sentire quella strana sensazione come se qualcosa di brutto sarebbe successo quella sera. Così, accantonata l’idea del riposarsi si sedette vicino al suo scrittoio buttando giù tutto ciò che gli passasse per la testa. Non aveva una TV né tantomeno usava i social. Queste cose, lo spaventavano più di ogni altra cosa. Il controllo, la manipolazione erano solo alcuni degli aspetti che lo portarono a fare determinate scelte. Il tempo passò molto velocemente e l’orologio appeso in salotto segnava che era quasi ora.

19:30

Mikael stava fermo fuori il suo terrazzo a guardare un’ultima volta il tramonto scendere sulle montagne. Piangeva perché il suo destino ormai era imminente; oramai lo aveva accettato. Non aveva più niente da perdere né da guadagnare. Anzi l’unica via di liberazione era proprio quella che aveva predetto.

Jonas, nel frattempo, si stava preparando per la festa. Si guardo allo specchio, non riconoscendosi più nemmeno nella sua immagine. Il fisico era debole e magro, quasi spuntavano le ossa. Le occhiaie di sera erano sempre più vivide, le labbra erano totalmente screpolate. I suoi capelli erano disordinati e la barba incolta. Insomma, decise di sistemarsi quanto meglio poteva. Una volta finito il risultato non era dei migliori ma migliore del precedente. Una volta vestitosi, prese le sue medicine ed uscì di casa. Mikael fece lo stesso andando al cimitero per salutare sua moglie.

20:15

I preparativi per la festa erano già cominciati. Jonas arrivo con un quarto d’ora di ritardo ma a pensarci bene, non fu mai così puntuale. Entrò in casa e quasi metà degli invitati era già lì. Cerco Layla trovandola poi in soggiorno intenta a preparare il cibo. Toccandogli la spalla da dietro, si girò e lo abbracciò.

Jonas: “Scusa per stamattina, volevo farti i miei migliori auguri. Tieni, ho preso un pensierino per te…”

Gli porse una bustina color oro, il quale contenuto pareva renderlo soddisfatto. Lei lo aprì e sorrise.

Layla: “Ascoltavamo sempre questo disco quando eravamo piccoli. Ti ricordi? Non dovevi, lo apprezzo veramente molto. Questo regalo è molto importante per me.”

Il disco era Dark Side Of The Moon. Proprio in quel momento, i loro spiriti sembravano volersi comunicare qualcosa ma il tutto fu interrotto da Jason, il simpaticone del gruppo. Ergo, un’idiota.

Layla: “Cazzo, scusami. Devo andare a finire di sistemare, tu nel frattempo puoi metterti comodo ed aspettare. A dopo.”

23:00

Tutti si stavano divertendo. Ragazzi sconosciuti che ci provavano con le più carine, giochi alcolici dove quello che vinceva era quello che vomitava subito, persone che non si parlavano mai e in quella circostanza sembravano culo e camicia. Jonas se n’era stato in disparte tutto il tempo, bevendo solo un paio di birre e qualche shot di Bourbon. Per tutta la serata però non aveva visto Layla in mezzo a tutte quelle persone. Il che, ovviamente, gli parse strano. La festeggiata era lei dopotutto. Si alzò quindi per andare a cercarla ma niente. Un ragazzo che aveva decisamente esagerato con i drink gli vomitò sulle scarpe. Poi barcollando continuò a girovagare. Ancora più a disagio, salì per le scale in cerca del bagno al piano superiore.

Nel frattempo, Mikael continuava a camminare; senza meta e senza posto dove andare. Si fermò ad un bar sul ciglio della strada dove si ubriacò fino a perdere quasi i sensi. Il barista fu costretto ad accompagnarlo all’uscita, dato che iniziava a cercare di litigare con i presenti. Barcollante in piena notte, proseguiva la sua strada aspettando il momento. Giunta la 00:00 tutta quella sofferenza sarebbe finita. Esattamente lo stesso orario in cui sua moglie morì. Il giorno del loro anniversario.

23:40

Dopo essersi pulito con non poca fatica le scarpe, uscì dal bagno e ricominciò a cercare Layla. Non poteva essere sparita, doveva pur essere da qualche parte. Vide una stanza la quale aveva la porta socchiusa. Decise con passo attento di entrare ed era lì. Stava scopando con James. Il cuore d’improvviso gli andò in frantumi. Ricordava che fosse stata con altri ragazzi; quell’immagine di fronte ai suoi occhi però lo rimase pietrificato. Mentre camminava all’indietro, cercando il più possibile di allontanarsi, inciampò su di uno scalino facendolo precipitare per tutta rampa di scale. Accorsero chi più poteva per vedere se stesse bene. Jonas maledisse tutti e con il sangue che gli colava dalla fronte decise di andarsene. Tutto quel rumore aveva spaventato la ragazza che scese più veloce che poteva. Lo cercò ma sembrava sparito quindi prese la giacca, le chiavi dell’auto ed uscì per andare a cercarlo. Lo trovò camminare sul bordo di una stradina. Abbassato il finestrino, gli chiese dove stesse andando. Nessuna risposta.

Layla: “Ma che diavolo ti è preso? Cosa hai fatto alla faccia? Senti, non stai bene…Sali in auto che ti do un passaggio a casa.”

Jonas rispose con voce quasi singhiozzante

Jonas: “Tu eri l’unica cosa che mi facesse sentire vivo, tu! Ed ora è tutto sparito. Vaffanculo! Non voglio niente da te, torna pure alla tua festa e divertiti. D’altronde, lo stavi facendo no?”

Layla rimase per un attimo in silenzio, poi replicò:

Layla: “Non so che cosa credi di aver visto, però mi dispiace. Dai, sali in auto così ne parliamo meglio.”

Dopo un momento di esitazione, il ragazzo salì in auto.

Jonas: “Mi mancano i tempi in cui eravamo piccoli. Eravamo così spensierati, gioiosi di vivere. Ricordi quando facevamo gli scherzi alla signora Stanford e poi scappavamo? Si cazzo, che ricordi.”

Layla: “Si, ricordo ogni momento passato con te. Sai perché? Perché quando ti vidi da quell’altalena, capii che saresti stata la migliore cosa che mi sarebbe mai capitata in tutta la mia vita.”

Jonas rimase perplesso mentre continuavano a proseguire verso casa sua.

Jonas: “Ti amo e ti ho sempre amata Layla. Perché sei vera, perché non sei mai stata come loro. Perché eri reale. Perché sei reale.”

La ragazza non rimase sorpresa, tutt’altro.

Layla: “Anche io ti amo amore mio, ma sappiamo entrambi che le cose non stanno così. Io sono morta. Sei tu che stai guidando l’auto. Mi hai fatto una promessa, le lancette stanno quasi per suonare. Poi staremo insieme.”

23:58

Giunse il momento. Jonas e Mikael erano la stessa persona. Dopo l’incidente, cercò di cambiare identità per lasciarsi il suo passato alle spalle. Il risultato fu però fallimentare. Svolto verso l’autostrada aumentando sempre di più la velocità. Accese lo stereo. Nell’auto risuonava il loro gruppo preferito e la loro canzone preferita. Hey You non l’aveva mai sentita trapassargli il suo spirito così forte. Mancavano solo due minuti.

00:00

Aveva ormai superato i 130km/h e aumentava sempre di più. Proprio mentre la canzone intonava i versi “Open your heart, I’m coming home” scoccò la mezzanotte. Chiuse gli occhi con un cenno di sorriso su quelle labbra screpolate e si schiantò sul Guardrail. La macchina fu trovata in mille pezzi, lui morì sul colpo. Nella morte però trovò la vita, trovò una speranza ormai perduta, trovò la felicità. Era libero. Era con l’amore della sua vita danzando fra le stelle. Aveva mantenuto la sua promessa.

Nicola Barbarisi, Avellino

 

Parliamo del suo primo romanzo, Configurazione Tundra edito da Tunué, come nasce, cosa racconta in questa distopia?

Quando ho iniziato a lavorare sulla storia avevo due immagini: una casa piena di scatoloni di cose e lettere e una donna che li trova e inizia a immaginare. Questa cosa mi era accaduta a Torino. Una coppia di amici era impegnata nel trasloco ma la proprietaria di casa aveva lasciato scatole, libri, fotografie e lettere. Nel mettere le mani nei ricordi di questa donna avevo iniziato a fantasticare e inventarne la vita. Solo in seguito, seguendo le immagini, ho capito che mi servivano altre case e una città dotata di una struttura iper-funzionale. Mi son resa conto che la storia stava assumendo la forma di una distopia per così dire morbida, non c’erano stati stravolgimenti o catastrofi ma un bando di rigenerazione urbana.

Configurazione Tundra, quindi, è diventata la storia di una doppia relazione: col mondo, le strutture urbane e con sé stessi.

Virginia Woolf in un saggio del 1929, quasi un secolo fa dice: “se vuole scrivere romanzi, la donna deve avere del denaro e una stanza tutta per sé…” ritiene che sia ancora attuale? E quanto l’emancipazione femminile, la presa di coscienza, la lotta di genere influisce e alimenta la scrittura delle e sulle donne? E a tal proposito crede che sia ancora forte il condizionamento di una letteratura di genere?

La frase di Woolf non smette di mostrare la propria attualità. Lo sguardo femminile è uno sguardo del “margine” e per questo, credo, abbia una visione prospettica piuttosto strabica, capace cioè di cogliere delle sfumature ma, sia chiaro, questa capacità credo appartenga a qualsiasi tipo di sguardo marginale e periferico. Quando scrivo non lo faccio pensando alle donne e non credo di scrivere sulle donne, ma scrivo a partire da quel tipo di posizione marginale e mi ritrovo a riflettere su alcuni temi che mi stanno a cuore – il potere, il corpo, la relazione con sé stessi.

Quali sono i suoi modelli letterari e quali quelli di vita? Quanto la sua formazione filosofica la condiziona? Nel suo romanzo d’esordio, un romanzo distopico, quali sono i riferimenti?

I miei modelli letterari sono abbastanza vari. Il mio amore è per Arthur Schnitzler, ma riconosco quanta influenza abbiano avuto sulla costruzione del mio immaginario Elsa Morante, Ágota Kristóf, Anaïs Nin, Robert Walser, Fernando Pessoa, Philip K. Dick, George Orwell, J.G. Ballard, Yasunari Kawabata e Yukio Mishima. Amo moltissimo Mariana Enriquez. Mentre preferisco non avere modelli di vita.

La mia formazione filosofica ha, sicuramente, un suo peso ma non diversamente dalla lettura di Topolino nell’infanzia e di Dylan Dog nell’adolescenza, dell’amore per il cinema di Lynch, Bergman e Petri, da anni di programmazione pomeridiana televisiva fatta di storie e anime, di teen drama e serialità varia. In Configurazione Tundra si sentono gli echi soprattutto di Orwell, Dick, Huxley e Abbott.

Nella sua esperienza di redattrice per Narrandom, che consigli si sente di dare agli scrittori emergenti? Che visione e prospettive coglie per l’editoria italiana e in generale che tendenze connotano la contemporaneità?

Solo due consigli: leggere tanto e scrivere al meglio. In realtà ho ancora una prospettiva non del tutto chiara dell’editoria italiana e delle sue tendenze. So che gli ultimi anni hanno espresso chiaramente una necessità di scrivere storie in modo libero e ambizioso (penso a La mischia di Valentina Maini), visionario e immaginifico (Libro dei Fulmini e Libro del Sole di Matteo Trevisani), con un gusto raffinato e concretissimo per il ritmo e il lessico (Io sono la bestia di Andrea Donaera), con un rigore e un’etica della scrittura (Sangue di Jacopo Nacci). Sento di poter affermare che la contemporaneità ha bisogno di nuovi immaginari e narrazioni mitiche.

Iniziamo a conoscere i protagonisti della cultura italiana, scrittori del nostro tempo, senza tempo. Il primo? Gioacchino Criaco. Ha esordito nel 2008 con il romanzo Anime nere, da cui è stato tratto il film omonimo diretto da Francesco Munzi, vincitore di nove David di Donatello e di tre Nastri d’argento.  Il suo ultimo romanzo “L’ultimo drago d’Aspromonte” ,edito da Rizzoli Lizard nel 2020, racconta la storia di un ragazzo che viene portato dalla madre in una comunità di recupero nel cuore dell’Aspromonte. Lo abbiamo “incontrato” e la sua voce ci ha guidato tra le pagine del suo ultimo lavoro, ma anche più in là, verso una visione della sua terra e del futuro che ci attende.

Nel suo ultimo romanzo “L’ultimo drago d’Aspromonte” si percepisce una forza primordiale che poi è quella dei luoghi, di spiriti ancestrali che sembrano animare una terra bella e maledetta come la nostra… quanto il luogo, in senso antropologico, dà significato al racconto e quanto il determinismo ambientale plasma il nostro modo di vivere ed essere?

Il vero protagonista del mio romanzo è l’Aspromonte stesso, più di Ni il ragazzo che finisce nel bosco per rientrare in equilibrio con la natura e avere il suo momento di pacificazione. È un viaggio culturale e antropologico di un ragazzo che riprende il suo posto naturale, uscito dall’incasellamento, dalla morsa della cultura occidentale e riconquista una posizione paritaria con la natura. È una metafora della parabola dell’uomo moderno e del suo ritorno alle origini.

Qualche anno fa, era il 2018, fu molto coraggioso e importante il suo appello a sostegno della riapertura della scuola di Careri. Ritiene che sia indispensabile in un momento come questo ripartire dalle scuole come presidii democratici che sono linfa vitale per un territorio contro spopolamento e abbandono?

Era l’epoca precovid ed io, insieme con altri, ribadivo il diritto di stare nel territorio in cui si è nati, nei paesini interni della provincia di Reggio Calabria. Ribadivamo la necessità della presenza di insegnanti e di scuole anche per pochi studenti. E proponevamo, come rimedio, anche la didattica a distanza che, ora con la pandemia, è tornato un tema attuale. Il fattore determinante, comunque, era la lotta e la resistenza per la presenza di scuole in territori interni.

Questo periodo di chiusura e riflessione oltre a agevolarle la stesura della sua ultima opera, cosa ha prodotto in lei? Finita la pandemia, la cultura italiana su cosa dovrà puntare? Come si dovrà riavvicinare la gente ai luoghi di cultura?

La condizione dell’isolamento è propria degli scrittori. La costrizione però ha portato a ripensare che la corsa al modernismo e al centro, intenso sia in senso fisico sia come ricchezza, ci aveva fatto abbandonare le cose migliori. in un certo senso è stata una rivincita della periferia e della provincia, un recupero di un modello di vita insito nella nostra cultura, che ci porta ad abbandonare le cose superflue e i falsi traguardi e affrontare la fragilità con elementi spirituali salvifici, che è il messaggio contenuto anche nel mio romanzo. L’esposizione alla malattia ci ha spiazzato, credevamo che la scienza fosse onnipotente, in realtà abbiamo dovuto fare i conti con la nostra fragilità.

La cronaca quotidianamente è tempestata di notizie nefaste riguardanti la Calabria. Lei ritiene che quest’immaginario sia falsato e straniante o contenga in sé, parte di verità e nello specifico confida che il popolo calabrese possa risollevare le sue sorti? Se sì in che modo?

È evidente che ci sia una diversa percezione all’esterno della Calabria, una vera e propria falsificazione. Perché? Perché è un racconto fatto da non calabresi, ispirato per lo più dalla cronaca nera che ci ha resi ciò che raccontano di noi che non corrisponde a verità. È necessario un racconto che non sia un necrologio, ma che sia informato dei fatti di una società complessa e noi tutti dobbiamo riprenderci il diritto di compartecipare a un racconto alternativo, senza essere complici di uno sbagliato. È necessaria una rinascita, intesa come presa di coscienza della nostra lunghissima storia, della nostra cultura. I calabresi sono poco consapevoli di loro stessi e così si appiattiscono con elementi consolatori a realtà peggiori o migliori, dimenticando che ogni territorio ha la sua porzione di drammi.

Lei ha la Calabria nel cuore ed è risaputo. Le cronache parlano di una terra piena di problemi e le elezioni sono alle porte. Che cosa consiglia al futuro governatore della sua regione?

Consiglio un atto di coraggio, un richiamo all’orgoglio, ognuno di noi ha una parte di responsabilità, ma chi governerà questa Regione andrà ad assumere una responsabilità maggiore e il mio consiglio è che abbandoni il vizio di curare i propri interessi e assuma una visione collettiva, cosa che nessuna legislatura precedente ha mai fatto.  Più in basso di così non possiamo cadere, quindi occorre mettere il passato alle spalle e sviluppare una progettualità che abbia a cuore gli interessi di tutti, non quelli privati o di una parte di elettorato.

Chiara Ubbriaco