Arrampicato su una roccia mostra tutta la sua bellezza. Con la sua facciata di tufo calcareo si specchia nelle limpide acque dello Ionio, quasi come una dimostrazione di rivincita nei confronti del mare, lo stesso che fece arrivare imbarcazioni da chissà dove sulla nostra costa. Lo stesso che accoglie le mie passeggiate, all’ombra della pietra dell’incudine, altro elemento naturalistico conosciuto come il fungo di Roseto Capo Spulico, imponente e solo come un monumento in una piazza, che domina la riva della spiaggia ai piedi del castello, dove le pietre splendono al sole e i piedi scottano, le schiene scricchiolano per non aver trovato la giusta posizione. E tra una vista sul panorama e la lettura de “L’arte di correre” di Murakami, il libro che ha occupato gran parte dei miei pomeriggi di ozio, immagino Federico II che volle a tutti i costi annoverare il Castello di Roseto nel piano dei castelli già nel 1230 e che decise di farlo diventare scrigno e custode della Sacra Sindone per diversi anni. C’è chi dice che tutto ciò sia leggenda, chi invece attesta con carte e studi alla mano che si tratti di una storia realmente accaduta.
Le mura, affrescate con disegni profani e di cui ora non vi è traccia, dell’imponente vedetta che stava lì a scoraggiare pirati ed equipaggi imprudenti, rappresentavano un luogo religioso e templare. Basti osservare la pianta trapezoidale, importante riferimento al tempio di Gerusalemme, o i nomi delle contrade intorno al maniero che ci riportano a questa similitudine con la terra santa: da Piano d’Orlando che richiama Re Artù e i Cavalieri della Tavola Rotonda alla Ricerca del Santo Graal a Piano di Salomone, il Re costruttore del tempio di Gerusalemme, fino al mar Ionio che rappresenta l’acqua del Giordano. Tutte a incastonare questo imponente simbolo della città, di cui Federico si prese cura fino all’arrivo degli angioini.
L’intensità del sole mi sveglia da questo sogno. Sono ancora in spiaggia e non ho ancora scoperto il segreto dello scrittore maratoneta. Odio lasciare i libri a metà, è come tradire un patto con me stessa.
La matassa dei vicoli con andamento circolare accoglie, come una madre con il suo pargolo, il paese di Civita, un luogo magico tra la timpa del demanio e le gole del Raganello, dove le case kodra, abitazioni antropomorfiche ispirate ai lavori dell’artista albanese Ibrahim Kodra, e i comignoli antichi posti sui pergolati, realizzati dagli artigiani per scacciare gli spiriti e la mala sorte, sono solo due degli elementi caratteristici, suggestivi piuttosto.
Come le tradizioni che scandiscono lentamente la vita degli abitanti. Ne sono una prova i vicinati più arcaici, chiamati anche ghitonie, dove gli uomini consumano il giorno con arzigogolate passeggiate e le donne si ritrovano davanti l’uscio di casa, si cimentano nel cucito e discorrono della vita che passa e si colora di ricorrenze familiari festose e di riti intrisi di storia che negli anni si ripetono e non risentono di intensità, come quel senso di appartenenza che contraddistingue questa comunità arbëreshë. Nelle scuole l’insegnamento della storia, degli usi e dei costumi e della lingua albanese rivestono un ruolo centralissimo: ancora si parla alla maniera di Scanderberg, nonostante l’idioma sia cambiato nel tempo come in altre comunità. I cittadini del futuro dedicano tempo e passione nell’apprendimento delle loro origini.
Senza dimenticare la pasqua, un momento importante per tutti, celebrata alla maniera degli avi. Nel giorno delle balie sono le nonne ad avere l’onere e il dovere di far indossare alle giovani nipoti gli abiti tradizionali: la camicia di merletto, la cravatta ricamata d’oro legata intorno al collo, il gilè come soprabito e i vivaci drappi di seta ricamati che raccontano una storia tra passato e presente, che scendono sui fianchi e cambiano colore, a seconda dello status della giovane donna, se sposata o nubile. I canti, rigorosamente in lingua, si sprecano, e le danze, non dimentichiamo le danze: ognuna con una simbologia ben precisa, che racconta antiche tattiche di battaglia, un aneddoto, una storia d’amore e quasi sempre un sentimento, come l’amicizia, l’onestà e l’onore, tutte virtù dell’eroe del tempo grande.
Ed è ancora tra quelle case con finestre e porte una di fronte all’altra, negli slarghi e nelle piazzette del paese che d’improvviso un falò attira a sé le famiglie di Civita, le fa girare intorno, le accoglie e le aggrega, come il focolare, simbolo di unità familiare e attaccamento all’etnia albanese.
Un viaggio che ha del meraviglioso, un viaggio tra le pieghe della cultura italo albanese, della cultura arbëreshë, ancora viva, oggi più che mai.
Una verso il mare, una all’ingresso della stazione dei treni e un’altra, naturalmente, proprio fuori dalla sua dimora, quella a lui dedicata. Ognuna di esse sta lì ad accogliere il nuovo da diversi punti della città. Quella città dal nome di donna, che a pronunciarlo quasi nessuno a primo impatto riesce a concepire l’idea che per quel luogo tra mare e colline sia stato scelto proprio un nome di persona. Beh, eppure è qui che San Francesco ha vissuto, è questo il paese in cui ha intrapreso il suo percorso di santità. Ma ritorniamo ai simboli, a quella statua che rispecchia la devozione dei suoi cittadini, che domina il paesaggio e ricorda a chiunque, residenti, passanti e turisti, la sua presenza, la sua protezione.
Un simbolo che porta con sé una serie di riti tradizionali e consolidati nel tempo. Pensate un po’ alla festa patronale, tra luci fluo e luccichii da festa, bancarelle che emanano odore di mandorle tostate, di miele tutt’uno con il torrone, ma anche alle processioni, alle vie addobbate a festa, ognuna con i colori che la contraddistinguono, e i balconi che, per l’occasione, sfoggiano tappeti e coperte tra le più colorate della casa, per dare un degno saluto a Francesco. Un mix tra sacro e profano che si aspetta tutto l’anno, o forse per cui si vive, si organizza, si scende in vacanza, si torna dai parenti anche solo per un saluto lungo 1200 chilometri di distanza, anche solo per tre giorni, quelli che bastano per sentirsi di nuovo a casa, con il Santo, la sua Festa e tutto il contorno.
E di colpo, in fondo alla valle, ecco apparire i laghi di Monticchio. Tra i boschi lussureggianti s’intravedono due specchi d’acqua collegati da una sottile striscia di terra: il Lago Piccolo ed il Lago Grande. L’uno con le acque di colore verde intenso copre un’area di circa 10 ettari l’altro di colorazione verde olivastro si estende per circa 40 ettari, entrambi si trovano ad una quota di circa 650 metri sul livello del mare. Queste sono le terre di Federico II di Svevia che amava percorrerle nelle sue memorabili battute di caccia e dove egli promulgò (nella vicina Melfi) le Costituziones, esempio di codice civile nel quale per la prima volta ed in modo avveniristico si diede spazio a tematiche inerenti la tute- la dell’ambiente.
Sono terre ricche e fertili grazie all’origine vulcanica che conferisce loro il particolare colore scuro dove si coltivano le uve aglianico dalle quali si produce il vino omonimo, famoso ambasciatore della Basilicata nel mondo, vero emblema rappresentativo di queste terre sin dai tempi del grande poeta latino Quinto Orazio Flacco. Il vulcano in questione è il Vulture, oggi inattivo, il cui antico cratere ospita i due laghi di Monticchio come gemme incastonate in un prezioso diadema. Nelle loro acque si specchia una vegetazione rigogliosa costituita per lo più da una faggeta di bassa quota.
In questi luoghi trascorre la sua esistenza la Bramea, (Acanto-brahmea Europea o Bramea Europea è il nome della specie) una farfalla notturna molto rara con un’apertura alare di sette centimetri visibile nelle ore crepuscolari nel periodo che va dalla fine dell’inverno all’inizio della primavera. Proprio a tal motivo, per proteggerla e conservare l’habitat integro, nel 1971 la zona è stata dichiarata riserva naturale. La sensazione è quella di trovarsi in un piccolo paradiso naturale. La quiete del luogo è solo temporaneamente interrotta dal vociare di alcuni ragazzi che solcano le acque del Lago Piccolo a bordo di alcuni pedalò, che è possibile affittare da luglio a settembre, poi come d’in- canto la vista di un cigno cattura l’attenzione e seguendolo nel suo lento solcare le acque si rientra in un’atmosfera quasi fatata.Il luogo naturale diviene sacro e amplifica la sua bellezza grazie alla presenza della Badia di San Michele, vero gioiello architettonico che si staglia imperioso e accecante con il bianco delle sue pareti a contrasto con il verde degli alberi.
Prospiciente le sponde del lago Piccolo, quasi aggrappata ai ripidi pendii del Monte Vulture la Badia è foriera di ricordi e di antiche storie di fede. Sorta intorno ad una delle grotte in cui monaci Basiliani si riunivano in preghiera fu, in seguito, dimora dei monaci benedettini che edificarono l’abbazia per poi abbandonarla intorno al 1456. Successivamente vi s’insediarono i frati cappuccini ai quali si deve l’a- spetto attuale dell’abbazia che risulta costituita da un convento a più piani e da una chiesa settecentesca. All’interno di una cripta sono ancora visibili tracce di affreschi che risalgono alla metà del secolo XI. Si narra inoltre che nelle grotte adiacenti la Badia si sia rifugiato il brigante “Crocco” all’anagrafe Carmine Donatelli che combatté contro i piemontesi negli anni successivi all’unità d’Italia e da qui si snodano diversi sentieri lungo i quali incamminarsi sulle tracce dei briganti. La natura è stata veramente generosa con questa terra, infatti, solo a pochi chilometri sgorgano le acque di Monticchio, famose per la loro purezza e il gusto frizzante assolutamente naturale oltre che per le loro proprietà terapeutiche.
I laghi di Monticchio rappresentano quindi una bella idea per una vacanza di più giorni o anche solo per una gita domenicale, si può contare infatti sulla presenza di spazi attrezzati per picnic all’aria aperta, di aziende agrituristiche, di ristoranti e di alberghi. Una meta alla portata di tutti in grado di far trascorrere momenti da ricordare.
Viaggiare è sia uno stimolo che la soddisfazione di uno stimolo. L’impulso di viaggiare può venire da una passione o da una curiosità: approfondire o conoscere qualcosa, come una lingua, visitare un museo, assaggiare il cibo tipico, acquisire maggiore esperienza.
Viaggiare è però qualcosa di più grande: è un modo di rimetterci in gioco ogni volta in un ambiente nuovo. Iper-stimolare i nostri sensi e il nostro cervello per un periodo limitato, rompendo gli schemi della routine, acquisendo conoscenza e vivendo in modo diverso. Per questo spesso, dopo grandi cambiamenti nella vita, dopo esperienze negative o in fasi di poca motivazione, ci viene voglia di viaggiare o ci viene consigliato un viaggio. Ci scuote, ci ricarica, ci ispira.
Sant’Agostino ha scritto una famosa frase: La vita è come un libro e chi non ha viaggiato ne ha visto solo la copertina. Fabrizio De André nella sua bellissima canzone “Khorakané” ha scritto un verso bellissimo “per la stessa ragione del viaggio: viaggiare”. Tolkien a proposito di viaggi e viaggiatori, nel suo mondo fatato del Signore degli Anelli ha scritto “non tutti coloro che vagabondano si sono persi”.
Insomma viaggiare è arricchire la propria vita e in un certo senso ricrearla.
In una bellissima poesia, Gabriel Garcia Marquez ha definito il viaggio con parole perfette:
Viaggiare è andar via di casa, è lasciare gli amici è provare a volare. Volare imparando altri rami percorrendo altre strade è tentar di cambiare. Viaggiare è travestirsi da folle dire “non mi importa” è voler ritornare. Ritornare apprezzando quel poco degustando una coppa è di nuovo provare. Viaggiare è sentirsi poeta, scrivere una lettera, è voler abbracciare. Abbracciare arrivando a una porta, agognando la calma, è lasciarsi baciare. Viaggiare è farsi mondano conoscere altra gente tornare a cominciare. Viaggiare è andar via di casa, travestirsi da folle è dire tutto e niente con un bollo postale. Dormire in un altro letto, sentir che il tempo è breve, viaggiare è ritornare.
Il sole stava albeggiando quando mi svegliai nuda. Ero stesa, pancia in su, in mezzo a un prato. Aprii gli occhi e, immediatamente, mi colpì un ronzio che penetrò fino al cervello. Mi sforzai di muovere il collo a destra e a sinistra. Le ossa del collo scricchiolarono. Sui fili d’erba era posata la rugiada, sentivo l’umidità attraversarmi la pelle. Ebbi dei brividi, l’aria era gelida, il mio volto trasfigurato dal dolore. D’improvviso udii il gracchiare di un corvo. Mi tirai su a tentoni e lo vidi appollaiato su un albero spoglio, dritto davanti a me. La sua testa e i suoi occhi si mossero con scatti rapidi da una parte all’altra. Le sue palpebre si chiusero e si aprirono in maniera lenta e regolare. Il ronzio nelle mie orecchie si fece più forte e tirai fuori un urlo. Il corvo ebbe un sussulto e volò via.Poggiai lo sguardo sui piedi sanguinanti. Avevo sicuramente camminato a lungo per ridurmi in quello stato ma non riuscivo a ricordare nulla di quello che era accaduto la notte precedente.
Ancora nuda, mi incamminai verso ovest senza avere nessuna idea di cosa stessi cercando. Dopo qualche minuto, vidi in lontananza una distesa di case e luci. Mi avvicinai al paesino. Le strade erano deserte, la giornata ancora doveva cominciare. Mi introdussi furtivamente all’interno di alcuni vicoli, in cerca di qualcosa da mettere addosso. Le piccole case di pietra e fango erano attaccate le une alle altre in file scomposte. Mi avvicinai piano sotto un balconcino e rubai un vestito. Lo indossai e sentii la pelle prudere al contatto con la lana. Dopo dieci passi, intravidi degli scarponi rotti accatastasti a fianco a un barile di legno. Rubai anche quelli e li infilai con difficoltà. Sentii il cuoio premere sulle vene delle caviglie.
Non passò molto tempo, prima che dalle porte delle case cominciassero a uscire le persone. Vidi contadini impegnati nella manutenzione dei loro attrezzi da lavoro, una donna bussare ad una porta di legno che si spalancò e udii un cane abbaiare ferocemente all’interno finché la porta non si richiuse. Più avanti, un bambino intento a buttare un ciotolone di cenere dalla finestra.
Durante la mia passeggiata, mi resi conto che la gente fosse indifferente alla mia presenza. Mi tranquillizzai e pensai che, probabilmente, pur non ricordandolo, facessi parte di quella comunità.
Arrivai in una piazza esagonale. Al centro era posizionata una statua di gesso raffigurante le Erinni: Aletto, Megera e Tisifone. Le tre sorelle erano mostrate in movimento, in un atto di furia, con serpenti al posto dei capelli e occhi di fuoco. A destra c’era Aletto, a sinistra Tisifone e al centro Megera. Quest’ultima, spinta dall’invidia verso il mondo e verso le sue sorelle, cercava di farsi avanti, lasciando le altre indietro.
Rimasi folgorata dalla visione della statua. Mi domandai perché sapessi la storia delle tre streghe e come mai le conoscessi. Avvertii un tremito lungo le braccia e sentii un profumo di limone che attraversò le mie narici. Provai disgusto. Uscii fuori dalla piazza e mi accostai ad un piccolo corso d’acqua che spaccava in due il paese. Mi inginocchiai, unii le mie mani fino a formare una coppa e l’affondai nell’acqua. Sentii il liquido sbattere violentemente contro le mie mani e raggelare il sangue. Tirai su l’acqua e ne bevvi un gran sorso. La gola cominciò a lubrificarsi e le mie labbra si ammorbidirono.
Di colpo quel e gracchiare. Vidi il corvo sul tetto di una casa. Quando si voltò e incrociò il mio sguardo, spiccò il volo e si appollaiò sulla finestra di un’altra casa. Mi avvicinai e lui scattò sulla porta della casa di fronte. Mi voltai e notai qualcosa di strano: alla base di ogni finestra e di ogni porta c’erano cumuli di sale.
Ne fui attratta. Mi accasciai per terra, vicino una porta, e cominciai a contare ogni granello di sale. Uno per uno. Arrivai al millesimo granello di sale e mi stancai. Mi rimisi in piedi. Il corvo ricominciò a gracchiare finché un istinto inspiegabile non mi spinse ad arrampicarmi su una finestra. Ripresi a contare i granelli di sale, uno per uno. Arrivai al millesimo granello di sale e le mie gambe cedettero. Crollai a terra.
Mi svegliai nuda nella mia stanza. Era stato solo un sogno, pensai. Mi sentii avvolta da una sensazione di terrore. Cominciai a tastare il mio corpo, dalla testa fino ai piedi. Mi accorsi di alcune cicatrici sui talloni e cercai di ricordare come me le fossi procurate. Sono sveglia, pensai, era solo un sogno.
Percepii dei passi lenti avvicinarsi, la maniglia si abbassò, la porta si aprì. Frettolosamente, mi coprii con il lenzuolo. Era mia nonna. Fui felice di vedere i suoi occhi azzurri.
«Maggie, tutto ok?» mi chiese.
«Sì, nonna» risposi mentre sentivo l’imbarazzo di ritrovarmi nuda nel letto.
«Ti ho sentita urlare. È stato un incubo?» entrò e si appoggiò ai piedi del letto.
«Sì, credo di sì» ribattei confusamente.
«Va bene. Maggie, è l’ora di parlarti di qualcosa. Rivestiti e scendi giù, ti aspetto.»
Uscì dalla stanza e nuovamente provai quella sensazione di terrore. Cercai qualcosa da indossare e mi avvicinai alla finestra. Fuori era buio pesto, la luna piena brillava bianca al centro del cielo. Le stelle luccicavano intorno a lei, al suo cospetto. Sembrava la regina della notte, attorniata dai suoi servi.
Mi diressi al piano inferiore e trovai mia nonna con i gomiti poggiati sul tavolo della cucina. In mano aveva una tisana di erbe. Gli intrugli erano la sua specialità. Per ogni occasione aveva l’erba giusta. Si voltò verso di me e, sorridendomi, mi indicò una tazza.
«L’ho preparata per te. Melissa, malva e tiglio… magari ti rilassi dopo il brutto sogno» e bevve un sorso dalla sua tazza.
«Grazie, nonna. È piena notte, di cosa vuoi parlarmi?» presi posto vicino a lei e strinsi la tazza tra le mani.
«Maggie, stanotte dovrai andare via da qui. Non hai fatto un incubo. Ieri mattina Morgana ti ha trovata accasciata per terra, in paese. Fortunatamente si è accorta di te prima che se ne accorgesse qualcun altro e ti ha riportato a casa. Tra poco arriverà Sibilla e ti porterà via con lei, in un luogo sicuro» le tremavano le mani e a fatica sorseggiò la tisana e deglutì.
«Di cosa stai parlando? Chi sono Morgana e Sibilla?» improvvisamente mi colpì di nuovo il ronzio nelle orecchie ed ebbi un sussulto.
«Morgana e Sibilla sono nostre amiche… sono streghe. Tu sei una strega e lo sono anche io, mia piccola Maggie.»
Sgranai gli occhi e guardati sbalordita mia nonna. Mi sentii confusa e tradita. Non riuscii a porle nessuna domanda perché non capivo di cosa stesse parlando. Mi ammutolii e lei capì che avrebbe dovuto spiegarsi meglio. Si schiarì la voce e cominciò a parlare frettolosamente.
«Non abbiamo molto tempo per spiegarti. Maggie… ti chiamiamo Maggie per nascondere il tuo vero nome che è Megera. Io non mi chiamo Maddalena ma Medea. Siamo tutte streghe e siamo costrette a nasconderci. Mia piccola Maggie, non volevamo tu vivessi nella persecuzione in cui viviamo tutte noi. Non volevamo tu facessi la fine di tua madre, bruciata sul rogo. Il popolo crede che siamo esseri malvagi e sono secoli che vaghiamo per le terre del mondo cercando di sfuggire alla morte» si alzò di scatto dalla sedia e si avviò verso la porta di casa.
Ripensai al nome “Megera” e cominciai a sudare. Mi ricordai della statua al centro della piazza. Quelle tre donne con i serpenti al posto dei capelli e gli occhi di fuoco. Sono una strega e mi chiamo Megera.
D’un tratto mia nonna aprì la porta ed entrò una giovane donna incappucciata. Era Sibilla. Mi osservò dall’alto in basso e mi porse un mantello nero da indossare. Guardai mia nonna e lei annuì. Decisi di fidarmi di loro. Presi il mantello e lo poggiai sulle mie spalle. Era pesante e puzzava di pelle di vitello. Arruffai il naso e feci un grande respiro.
«Sono pronta!» dissi ad alta voce. Dentro di me sentii muoversi un’energia prepotente. Abbracciai Medea e la salutai. Non sapevo se l’avrei mai più rivista. Io e Sibilla ci incamminammo nella foresta.
Per tutto il viaggio non ci scambiammo nemmeno una parola. Finalmente arrivammo in una piccola casa di legno, immersa tra gli alberi, ben nascosta.
«Sibilla, cosa succederà?» le chiesi.
«Megera… le tue sorelle hanno combinato dei guai» mi disse preoccupata.
Tisifone e Aletto, pensai. Ma io ero cresciuta da sola con mia nonna… Medea, insomma.
«Tisifone e Aletto?» le chiesi.
«Esatto. Vedo che cominci a ricordare qualcosa. Anni fa fecero una maledizione, togliendoti i poteri e la memoria. In un certo senso, questa fu una grazia perché ti diede la possibilità di vivere una vita normale. Il problema si creò nel momento in cui le tue sorelle cominciarono a seminare morte tra gli umani. Sono diventate incontrollabili e hanno fatto scoppiare la “caccia alle streghe”. Nessuna di noi ha il potere di fermarle. Sapevamo che l’unica strega in grado di controllarle fossi tu ma senza i tuoi poteri, in questi anni, era diventato tutto inutile. Ieri Morgana ti ha trovato per terra e da lì è rinata la nostra speranza. Contavi i granelli di sale vicino una finestra prima di cadere. Noi streghe siamo costrette a farlo per poter entrare nelle case. Da lì, abbiamo capito che i tuoi poteri sarebbero ritornati» mi rispose mentre mi fece accomodare su una sedia.
«Cosa dovrei fare adesso?» domandai.
«Trovare le tue sorelle e farle ragionare. Se ciò non sarà sufficiente, dovrai ucciderle. Abbiamo perso molte streghe a causa loro» si avvicinò a un cassetto e tirò fuori una boccetta con del liquido rosso «Questo è sangue di salamandra, se le cose dovessero andare storte, basterà anche una sola goccia sui loro corpi per bruciarle vive» mi porse la boccetta tra le mani e io la conservai in una tasca.
Ci fu silenzio finché il vento non cominciò a sbattere violentemente sulle finestre e il tetto della casa si aprì. Io e Sibilla alzammo lo sguardo e vedemmo Tisifone e Aletto scendere dall’alto.
Ritrovare le mie sorelle mi face sentire in pace come se stessi delicatamente fluttuando su una nuvola. Ebbi delle sensazioni di tranquillità finché Sibilla non mi diede uno scossone, incitandomi a prendere la boccetta di sangue di salamandra.
Tisifone e Aletto si avvicinarono a me e io non ebbi paura. Nel palmo della mia mano stringevo la boccetta. Sentii una forza provenire dal profondo del mio cuore e la lasciai cadere a terra. Sul focolare vidi il corvo che mi fissò, impietrito. La boccetta si ruppe e io chiusi gli occhi.
Mi svegliai.
«Cornelia, sveglia! È tardi!» urlò mia madre dall’altro capo della porta.
La televisione era accesa, mi alzai per spegnerla e tirai fuori dal lettore un DVD. Lessi il titolo del film: La notte delle magare.
Il buco doveva essere stato, anticamente, la ricca casa di qualcuno. Le pareti portavano i segni sbiaditi di carminio, ocra, verde, bianco e blu. Erano pezzi di un disegno che si rincorrevano fra le pietre corrose dall’acqua, dal tempo, dalla sporcizia, dalla terra, dalla morte, che in quel luogo banchettavano giocandosi per noia il destino dei prigionieri.
Sembravano tracce di ricordi che ti vengono a cercare quando meno te lo aspetti: li vedi bene, eppure non li riconosci e poi te ne dimentichi; per tutto il giorno ti lasciano languido e pensoso perché c’indovini qualcosa di bello che di sicuro dovrà accadere di nuovo. Sembra il soffio di altre vite che vengono a tirarti i capelli, tra il dispetto e la carezza. E allora aspetti qualcosa che non conosci ma di cui senti di aver bisogno.
L’eco portava le grida che si fermavano nel buco, e da un grido ne usciva un altro e poi un altro ancora fino a formare una catena assordante, una canzone lunga un’eternità: dieci minuti.
Tanto ci voleva per decretare morte o assoluzione: chi resiste è innocente.
Nessuno le aveva detto se aveva resistito.
Sentiva un battere continuo fra le gambe; una pulsione che si espandeva dentro alle pareti del suo grembo, con unghie sottili come spilli vi si artigliava, e ritirandosi, portava via con se carne e sangue.
Non capiva se stesse succedendo ancora o se fosse il ricordo del dolore, la vita che si ribellava all’affronto delle ferite inferte .
La testa le pesava sul collo e cercava di tenerla su con le mani prive di unghie; le braccia stanche però ricadevano sui fianchi, la testa sul petto.
Una cosa sul muro sembrava guardarla.
Un insetto.
Si ripuliva le ali e la testa con le zampe, poi si fermava per rivolgerle lo sguardo nero e imperscrutabile. Era una cicala. Un riflesso d’estate finito chissà come nel buco umido in pieno inverno.
‒ Cosa vedono gli insetti? Come ci percepiscono? ‒ Le urla che venivano da fuori, quelle che lei forse aveva emesso, non lo distraevano dal suo lavoro. Il mondo circostante non lo toccava. E pensò di aver immaginato un dio umano ed enorme per tutta la vita: cosa c’era di più simile a dio di un insetto indifferente, che ascolta senza tremare il dolore e ti guarda contorcerti senza poterti dare aiuto?
Che fosse il suo signore che veniva a prenderla? Una volta morta, l’avrebbe portata sulle sue ali e posata da qualche parte sotto un albero di noce insieme alle altre sorelle; in paradiso o all’inferno, non si sa, ma al sicuro.
Un angelo, un diavolo? Non aveva mai fatto differenza.
Lei non agiva in male, non agiva in bene: faceva quel che le avevano insegnato e che andava fatto. Far nascere un bambino o farlo morire prima che nascesse, non era suo compito deciderlo. La fame, lo stupro, la noia, la distrazione, il desiderio concepivano. Le sue mani erano aiuto a trascinare alla luce chi doveva nascere, a relegare nel buio chi non era stato voluto.
Non si chiedeva certo adesso quale fosse la natura di colui che la guardava.
Le arti imparate nel suo nome le avevano dato un’identità, un destino, un motivo per vivere e per morirne. Angelo o diavolo lei l’aveva servito.
Il dolore la prese di nuovo, e questa volta sentì un frutto marcio spremersi nella sua pancia. Ancora sangue nero e pezzi di carne le fluivano dal centro del corpo, fra le cosce. Era come quando vedeva uscire fuori i bambini dalla ferita sempre aperta che tutte le donne hanno per castigo del cielo.
Partoriva la morte?
Era questo il suo castigo per aver infranto la legge dell’uomo?
La cicala sul muro cominciò a cantare.
Sapeva bene che era un canto d’amore: nei campi d’estate, milioni di cicale maschio invitano le femmine ad unirsi a loro.
La stava chiamando.
La stava invitando a seguirlo.
La esortava a recitare le sue preghiere.
Cominciò a sussurrarle e continuò fino all’alba.
Le sembrò che l’insetto si fosse unito alla sua litania e che pronunciasse le sue stesse parole.
Quando al mattino andarono a prenderla, la trovarono allucinata e sorridente: gli occhi quasi rivoltati, il viso contro la parete, un sorriso, mentre ancora recitava:
“Omne male percusiccio Omne malestravalcaticcio Omne male fantasmaticcio d’eco el toglia et la terra l’arecoglia”
Una guardia vide la cicala canterina ferma sul muro, la schiacciò
“Brutto diavolaccio, sei venuto a riprenderti la puttana!”
Ella si svegliò dal torpore. Ammutolì: era davvero il suo signore angelo o diavolo chi lo sa?
Mentre la trascinavano fuori, continuò a guardare la cicala finché non poté più vederla.
Sulla parete, il cadavere di un insetto.
Una morte inutile. Una morte per la quale non piangerà nessuno. Una morte violenta raccontata da una macchia impressa sulla parete. La morte di un piccolo, sconosciuto dio.
Molto lontano e molto tempo fa, esisteva una scuola davvero speciale, una scuola di stregoneria dove le donne studiavano ogni tipo di magia per diventare perfette streghe o potenti stregoni. In questa magica scuola insegnavano a creare filtri e pozioni, a usare la bacchetta magica e a volare su una scopa, tutte cose importantissime per una strega.
In questa strana scuola c’era però una bimba diversa da tutte le altre: i suoi capelli erano viola, i suoi occhi azzurri come il cielo di primavera e per di più il suo nome era Clementina. A differenza di tutte le altre streghe aveva il cuore buono, era altruista e cercava di essere sempre d’aiuto a tutti, infatti i suoi voti per questo erano bassissimi.
Più che una strega, Clementina sembrava una vera e propria fata, ma siccome nessuno può decidere dove e come nascere, lei non poteva far altro che adeguarsi. L’ estate si stava avvicinando e con lei anche la fine della scuola. Per diventare una vera strega era necessario superare l’esame finale, che consisteva nel creare un nuovo incantesimo, uno qualunque, purché del tutto originale. Tutte le piccole streghe si misero subito all’opera, con le idee molto chiare: Clementina invece voleva inventare l’incantesimo più importante di tutti, voleva trovare qualcosa che stupisse i suoi insegnanti e il mondo intero, perché, con i voti bassi che aveva, avrebbe dovuto fare un esame perfetto per poter essere promossa.
Era nella confusione più totale, non sapeva che fare e a chi rivolgersi ma all’ improvviso arrivò una Stregona con i capelli lunghi e neri e le disse “Se vuoi stupire tutti, e i tuoi maestri, puoi fare una magia per far camminare gli storpi, gli handicappati, gli invalidi in carrozzina e far vedere i ciechi”. Clementina tornò a scuola e ripeté questo alle sue Maestre e alle altre alunne e loro, tutte stupite, dissero ” Ma ti credi di essere Dio o Satana? Queste cose le possono fare solo loro”. Lei disse “Datemi fiducia e il 19 luglio in mio incantesimo si realizzerà”. E loro chiesero il perché del 19 luglio e lei rispose “Perchè è una data che mi piace”. E loro allora dissero: “Aspetteremo il 19 luglio ma se non succederà questo incantesimo tu andrai nella Terra di Mezzo dove le anime perse vagano per l’eternità”.
Lei preoccupatissima andò dallo Stregone e gli riferì ciò che gli avevano detto a Scuola. Lui tranquillo e serafico le disse di non preoccuparsi perché “ho 40 amici sciagurati che ti possono dare una mano”. Fecero tutti insieme un incantesimo e il 19 luglio del 2016 si videro gli storpi volare, gli handicappati giocare ed i ciechi sorridere. Lei venne promossa a pieni voti e da quel giorno si vedono tutti i bambini giocare e tutti gli uomini adulti gioire, senza distinzione di sesso, religione e colore di pelle.
Grazie a quel Santone e a questi 40 Sciagurati, Clementina non finì nella “Terra di Mezzo” ma in una Terra molto più bella “La Terra di Piero”. Questo posto magico esiste ed è reale si chiama “Parco Piero Romeo” e nell’imbrunire tra lusco e brusco l’incantesimo di Clementina, dello Stregone dai capelli lunghi di nome Piero e dei 40 Sciagurati si vedono realmente, non solo sparisce ogni handicap, ma tutte le persone morte che sono in Inferno, Purgatorio e Paradiso, e anche le persone che Navigano nella Terra di Mezzo, rivivono e giocano, parlano, sorridono in questo posto magico, ma per vederli devi avere l’Anima “limpida” come i bambini e gli occhi puliti come un Angelo, una Fata o una Strega.
Piove. Il ticchettio della pioggia risuona tra i vicoli deserti, sui lampioni, che illuminano di giallo i san pietrini, i muri di pietra, la fontana che scorre, nonostante tutto. Il vento soffia forte, e sembra stia arrivando una bufera. Anna si alza, e dalla finestra vede in lontananza la tempesta, che porta con sé tetti divelti, assi di legno, pietre. La tempesta tutto spazza, ti lascia senza fiato, ti trascina con sé, ti solleva, ti succhia l’anima, e poi ti ributta al suolo, dove cadendo puoi sentire il rumore delle ossa che vanno in pezzi. I vetri della finestra non ce la faranno a reggere, lo sa. E allora la apre e sta per chiudere le persiane esterne per evitare che la tempesta entri in casa, per la seconda volta, e la devasti nuovamente, questa volta mettendo sotto sopra oggetti e mobili, e non la sua mente, come era successo tempo prima. È una corsa contro il tempo perché veloce si avvicina. È un attimo, ma il vento incessante con forza entra mentre lei sta per sigillare la finestra. Si sveglia, sudata. Un brutto sogno. Le capitava ultimamente di fare sogni strani, cupi, in cui tutto sembrava andare in frantumi, come la sua vita.
Guardò l’orologio. Le tre. Il camino rilasciava ancora quel lieve tepore che tanto le piaceva, così si alzò, e avvolta da una coperta, si sedette sulla sedia a dondolo di fronte al fuoco, ormai diventato braci di un rosso spento.
Guardò fuori. Nessuna tempesta sembrava in arrivo, per lo meno non all’esterno.
Dentro casa si sentiva al sicuro nonostante fosse sola. In quella abitazione che fu della zia Iris, che aveva perso il marito giovane e che in paese si diceva “fosse un po’ strana”.Lo si diceva delle donne che sapevano usare le erbe per curare tutti i mali, di quelle che canticchiavano per strada, che pur senza marito uscivano di casa, e senza indossare quegli abiti neri, che dopo il primo anno di lutto – e di dolore – aveva deciso di non mettere più. Non per mancanza di rispetto nei riguardi dell’amato marito che era morto, piuttosto per rispetto di se stessa, che era ancora viva. Aveva 35 anni quando la ritrovarono fuori dalla finestra al secondo piano dove abitava con sua sorella maggiore Amanda. Il colpo che prese battendo la testa, la fece morire all’istante. Tutto fu archiviato come un suicidio, tesi avvalorata soprattutto da zia Amanda, che aveva sostenuto fin dall’inizio che la sorella avesse ripetuto più volte in sua presenza fosse stanca della vita, anche se Anna, in realtà, non ci aveva mai creduto fino in fondo. Zia Iris era sempre stata una donna allegra, aveva saputo alzarsi le maniche quando ce n’era stato bisogno, e aveva un sorriso per tutti. Sempre.Anche Anna era ritenuta una “ragazza strana”.
Anni addietro aveva fatto le valige, e da San Fili, a passo sostenuto, aveva lasciato quei vicoli per continuare a viaggiare per il mondo, dopo che l’uomo che credeva fosse quello della sua vita l’aveva manipolata a tal punto da indurle a credere di essere l’unica colpevole del declino del loro amore. L’uomo con la quale si era sentita libera di essere se stessa, la privava di quella libertà che il paese dalla mentalità ristretta dove era cresciuta le aveva sempre negato. Ma lei aveva intenzione di riprendersela, e così era partita per nuove mete, come prima di conoscere l’amore.
Poi qualcosa nei suoi sogni le aveva fatto intuire che c’era qualcosa di incompleto, qualcosa che andava sistemato, anche se ancora non aveva ben capito cosa fosse.
E Anna dava sempre ascolto ai suoi sogni, perché in un modo o nell’altro, le avevano sempre suggerito la strada migliore da prendere. Come le aveva insegnato zia Iris quando era piccola: «i nostri sogni sono sempre lo specchio di noi stessi, e quando sogniamo non vediamo altro che ciò che nella vita reale non riusciamo a vedere». Pochi giorni prima l’aveva sognata. Era seduta su di un ceppo, fuori dalla sua vecchia casa. Aveva in braccio un gatto nero, e lo accarezzava mentre lui sornione stava sulle sue gambe e faceva le fusa. Le tese la mano e le fece segno di avvicinarsi. «Morfeo è un gatto “particolare”, ma ha bisogno di tante attenzioni.» Anna fece per accarezzarlo, ma lui con un balzo elegante saltò giù dal suo momentaneo giaciglio, e sgattaiolò dietro l’angolo. La donna si alzò. «Questa volta me ne occupo io – disse mentre andava nella direzione del gatto – ma la prossima volta dovrai essere tu a seguirlo» e sparì dietro a Morfeo, mentre dalla finestra del primo piano, qualcuno chiuse velocemente la tenda, scostata per guardare la scena di sotto. E così, mentre era pensierosa per aver sognato la zia, la telefonata della madre che le diceva che zia Amanda fosse in fin di vita, le diede un po’ di pensieri, e fece la valigia per San Fili.Nonostante non fosse riuscita a dormire molto, si svegliò presto, e uscì per andare a casa di zia Amanda, che non aveva ancora visto. Trovò la porta socchiusa. La donna che si occupava di lei – Maria, una donna corpulenta ma risoluta, vestita di scuro – la vide e le fece cenno di entrare. La zia stava riposando in quel momento, e Maria approfittò per chiedere alla ragazza di rimanere fino a che lei non sarebbe tornata con le medicine. Si avvicinò al letto. Aveva un’aria sofferente, smunta, sembrava un ramo secco che sta per staccarsi dall’albero per cadere a terra, morto. Aprì gli occhi. Anna la salutò. L’anziana donna la guardò e rimase a bocca aperta, come se avesse visto un fantasma.
«Sei tornata!» disse.
«Si, sono venuta a trovarti, come stai?».
«Ti ho pensato in tutti questi anni. Lo sapevo che saresti tornata, ppi ru dì a tutti1».
«Dire cosa?» chiese Anna.
«Ma tu un ti nni si mai juta2» disse in dialetto «ti sentivo quando giravi per la casa, quando volevi farmi capire che eri qui, farmi diventare paccia3».
La giovane si accorse che la donna non stava parlando con lei, ma con sua sorella, ingannata dalla somiglianza che da sempre c’era stata tra di loro. Rimase in silenzio e la assecondò.
«Tanto in quel momento eravamo sole. Non c’era lu zitu tua4 che ti poteva difendere come faceva sempre». Zia Iris, dopo tre anni in cui era rimasta ancorata al ricordo del marito, aveva incontrato un altro uomo. In paese le voci giravano, e nonostante fossero tutti e due vedovi, a San Fili non era vista di buon occhio la storia tra l’indipendente Iris e Francesco, che lavorava il legno. Due menti libere e pensanti ai quali la vita di paese stava stretta. Ma a loro non importava, e continuavano a vedersi alla luce del sole e a desiderare di andarsene insieme, dove nessuno avrebbe potuto giudicarli.
Anche Amanda aveva spesso manifestato disappunto nei riguardi della sorella, e più volte avevano litigato. Una volta Iris, esasperata dalla sua invidia le aveva detto: «Cosa ne vuoi sapere dell’amore, tu che non sei mai stata innamorata». In realtà lo era stata, ma non lo aveva mai confessato a nessuno, perché si era innamorata di Pietro, primo marito della sorella minore. Quando anni addietro lui si era presentato a casa per chiedere la mano di una delle figlie della famiglia Rigoni, Amanda ebbe un colpo al cuore, ma lui era sua sorella che voleva sposare, e non lei. Lo amò in silenzio per anni, senza dire nulla, cercando nei suoi gesti un po’ d’affetto, che lui riservava invece alla giovane e bella moglie. Non si sposò mai. «Non ti bastava Pietro, pure Francesco volevi. E a te tutti ti vulìanu5» continuò.
La storia si era ripetuta. Francesco si era trasferito da poco da Falconara, e aveva una bottega dove faceva cornici, mobili, e intagliava meravigliose tavole in legno. Amanda lo vide per la prima volta proprio lì, e dopo tanti anni si era risvegliato in lei qualcosa che da tempo si era assopito, che le conferiva un aspetto e un carattere burbero e arcigno. Lui le aveva risposto in modo gentile, incartandole le due cornici che aveva comprato. Ma da giorni era un’altra ad aver attirato la sua attenzione senza volerlo. Gli era bastato vederla passare davanti al piccolo spazio che aveva per lavorare. Si sorrisero, e qualcosa avvenne. Quando Amanda lo seppe il mondo le crollò addosso, per la seconda volta. Per la seconda volta sua sorella sarebbe stata la “causa” della sua infelicità.
La zia Iris aveva deciso con Francesco di fare le valige e andare via, e quando lo disse ad Amanda lei andò su tutte le furie. Non poteva accettare che il sangue del suo sangue, fosse felice con l’uomo di cui lei si era innamorata, di nuovo. E così accecata dalla gelosia e dalla rabbia, mentre Iris non c’era, preparò un intruglio con le erbe che aveva trovato in casa. Non era un’esperta, non lo faceva da molti anni, ma doveva ricordarsi ancora gli ingredienti e il procedimento.
Quando la sorella tornò, ne versò in due bicchieri, fingendosi calma e pentita per la sfuriata. Iris la abbracciò e bevve il contenuto del bicchiere a piccoli sorsi, mentre Amanda faceva solo finta. Dopo qualche minuto avvertì una fitta allo stomaco. Si sentì improvvisamente la gola secca, le girava la testa. Guardò la sua “nemica”, e il suo ghigno confermò quello che temeva: l’aveva avvelenata. Tentò di urlare, ma non le uscì un filo di voce. Di scatto si alzò, ma si accasciò subito a terra per i dolori insopportabili. Amanda intanto la guardava, imperterrita, mentre un sorriso le nasceva sul viso per aver ottenuto finalmente dopo tanti anni di sofferenza, la sua vendetta. Si alzò e andò in cucina per cancellare le prove che avrebbero potuto farla scoprire, lasciando che la sorella si lasciasse morire. Iris in un ultimo atto di forza, si aggrappò allo scrittoio e si sollevò. Prese il foglio bianco sul piano, e tra i dolori lancinanti e con una debole calligrafia, scrisse le sue ultime parole, nascondendo la lettera nella mattonella sotto lo scrittoio, che da sempre era stato per lei il nascondiglio perfetto quando voleva tenere solo per se qualcosa. Morfeo sgattaiolò di fianco a lei, che esalò l’ultimo respiro. Fu poi Amanda a caricarsela sulle spalle e a buttarla dal balcone, per avvalorare la tesi che avrebbe ripetuto alle guardie e all’intero paese: «Francesco voleva partire, ma lei voleva rimanere qui a San Fili. Non sapeva cosa fare, piangeva da giorni a casa, non ce l’ha fatta e povaredda s’è jittata sutta6.»
«Non mi sono pentita. Mai. Te lo sei meritato. Tu che nella vita hai ottenuto sempre tutto, perché eri bella, e sapìa parlà7. A e me invece non è rimasto niente». Nella testa di Anna il bando della matassa iniziava a sciogliersi, e ogni tassello ritornava al suo posto. Era stata zia Amanda ad uccidere zia Iris, lei non lo avrebbe mai fatto. Qualcosa alle sue spalle si mosse. Un gatto nero si era adagiato sulla mensola, e la guardava con quegli occhi gialli che aveva già visto. Era il gatto del sogno con zia Iris. Con un salto si avvicinò allo scrittoio, e si mise a fare le fusa girando intorno al piede del mobiletto. Ricordandosi delle parole del sogno, la giovane si avvicinò. Chinandosi accarezzò la bestiola, che in quel momento saltò sulla mattonella, facendola traballare.
La smosse ed estrasse il foglio ormai ingiallito, rimasto ripiegato sotto il pavimento per anni, in attesa di essere ritrovato. “Amanda mi ha avvelenata con le mie erbe. Voleva Francesco. Volevamo partire e lei mi sta uccidendo. Iris. 26 gennaio 1987”.
Anna rimase di sasso. Andò al capezzale della zia. «Sei una cattiva persona, hai fatto tanto male. Per questo sei rimasta sola». Lei la guardò, forse per la prima volta dispiaciuta. In quel momento entrarono in casa sua madre e Maria. «Che è successo?» chiese la madre vedendola bianca come una carta. Le porse il foglio ingiallito dal tempo.
Si avvicinò alla finestra e guardò fuori. Le tende furono smosse da una folata di vento, che le sollevò in modo strano, per poi lasciarle ricadere. Ebbe l’impressione che il vento portasse un profumo che aveva già sentito, e che stava nei suoi ricordi di bambina, quando con zia Iris preparavano il sapone per le mani, che sapeva di violetta.
«Recupera il mio Scrigno, ti prego! Se il mio Scrigno resterà Violato e perduto non troverò mai marito».
Agata si svegliò sudata e con il cuore che batteva all’impazzata. Erano ormai sette notti che questo sogno la rincorreva e non ne comprendeva il significato. Sapeva che ancora una volta era poco più che l’alba e, stanca e infreddolita, si mise lo scialle di lana e andò ad accendere il fuoco.
Striature rosa e verdi si intravedevano fuori dal quadro della finestra. L’immobilità del mondo e la serenità sembravano una certezza in quel cielo. Le ricordavano un passo del Vangelo ma non ricordava quale. Il fuoco scoppiettava già quando Agata mise gli stivali e uscì fuori, accarezzata dalla rugiada, a raccogliere acqua dal pozzo. Avrebbe dovuto fare il bagno a sua madre e preparare il pranzo. Le galline chiocciavano giulive attorno agli alberi da frutto, la terra si era finalmente asciugata dalla nevicata invernale e timidi sprazzi d’erba si affacciavano al sole di marzo. Quel tempo di rinascita Agata lo preferiva in assoluto, la lentezza, i profumi dei fiori e il ritorno degli uccelli. Tutto creava un’orchestrale armonia che le dava pace e speranza. Riempì i secchi, a uno ad uno, e li mise sotto la balaustra per proteggerli dallo sporco, coprendoli con un lungo lenzuolo bianco. Le venne in mente che in quel dì una comitiva di prestanti giovani in fibrillazione si sarebbero recati nella piazza del paese a fare le offerte per le donne che volevano condurre al giogo. Chi accettava si ritrovava portato in spalla alla prima chiesa madre e gravida dopo nove mesi. Dalla sua vallata, una delle poche in quel borgo, Agata guardò le case arroccate lungo il crinale e immaginò le sue coetanee già pronte nelle vestaglie di seta, con l’acqua di rosa tamponata a più mani lungo ogni lembo di pelle, trepidanti in attesa del primo bue con qualche ettaro di terra e una carrozza. Era il ratto della Vergine e Agata lo trovava più sconveniente dell’odore del prete. Lo stesso che celebrava le nozze dei poveri castrati adolescenti. Mentre pensava a tutto questo, certa che sarebbe fuggita pur di non sottoporsi a tanto scempio, un tonfo la risvegliò e riportò alla realtà. I suoi stivali sprofondano nello sterco e una serie d’impronte si dipanavano attorno a lei. Impronte piccole di cerbiatto in fuga.
Agata si inoltrò nella radura dei pioppi dove sua madre l’aveva messo al mondo otto mesi dopo la notte del ratto, sola e abbandonata anche da lui. Da allora la follia aveva divorato la sua semplice mente ed era rimasta così ingenua da necessitare di ogni cura.
«Aiutami».
Il cuore di Agata balzò dalla sua sede, giù fino in gola e ritorno.
«Aiutami».
Dai cespugli di ortensie si allungava un’ombra tremolante, da quelle piante che significavano diffidenza proveniva una voce rotta e fanciullina. Scostò i suoi capelli dietro l’orecchio, come faceva sempre quando era nervosa e si avviò cauta, lentamente:
«Chi c’è?».
«Sono qui» da dietro i cespugli uscì qualcuno tremando. Poteva percepire i suoi denti sbattere e produrre scosse sussultorie sul mento e le spalle. Lenta, si affacciò una ragazza dai neri capelli arruffati, l’abito stracciato le scopriva la pelle chiara fino alle clavicole. Agata la sostenne e quella si rialzò incerta. Senza pensarci, la condusse dentro casa. Chiuse con i chiavistelli della porta e abbasso le pesanti tende polverose. Controllò il sonno di sua madre e si assicurò che non le sentisse, poi si rivolse alla giovane:
«Cosa ti è accaduto?»
«Non posso parlarne, non ancora».
Accettò il suo silenzio e immaginò presto di cosa si trattasse. Affettò il formaggio e scaldò delle uova, prese l’olio ai pinoli e lo sparse caldo sul pane. Porse il cibo alla donna che, quasi sorridendo, sbocconcellava il pane e sorseggiava il vino zibibbo. Quando ingoiava faceva un ghigno, la gola graffiava a ogni sorso. Le porse il miele dorato e accese un calderone per bollire l’acqua e farle un bagno.
«Grazie» disse, mentre il miele leniva il suo dolore. Quello del corpo… l’altro sarebbe stato più difficile da curare. «Sono Agata, qui sei al sicuro».
«Beatrice».
Capitolo II
Le insaponò per diversi minuti le spalle e Beatrice si sciolse, chiuse gli occhi e canticchiò a bassa voce una ninna nanna. Stava quasi per addormentarsi quando di colpò riaprì gli occhi e strinse così forte le mani di Agata da conficcarle le unghie nella pelle.
Gli incubi non l’avrebbero lasciata andare Agata rifletté se darle del latte di papavero per dormire, quella notte. Avrebbe voluto stringerla a sé.
Il suo corpo era bello; anche se ancora acerbo, il suo seno guardava fieramente all’insù, tra i lividi si intravedeva una pelle di pesca, mai sforata, ora percorsa da brividi. Agata l’abbracciò con un telo e la condusse al fuoco. Aveva gambe esili e fianchi prominenti da ricordare un’ampia cesta di melograni maturi e succosi. Tutto il suo corpo era fatto per essere esaltato, venerato, con oli e sete.
«Sai, ho sognato per sette notti una donna che chiedeva aiuto»
«Per sette notti sono entrati e usciti da dentro il corpo, come fosse un tempio».
«Mi dispiace… è così ingiusto che non siamo abbastanza forti da difenderci».
«Oh, sì che lo siamo. Uno di loro conserverà a lungo quella ferita, un altro potrebbe anche essere morto se i suoi arti sono andati in cancrena. Un altro ancora è rimasto senza i suoi adorati sacchettini mosci e spelacchiati. Gliel’ho portati via con queste mani».
I suoi occhi lucidi erano iniettati di sangue e non smetteva di tremare. Agata le strinse le mani, complimentandosi, e si volse, ricacciando indietro una lacrima, a cercare gli strumenti per la toeletta. Le pettinò i capelli avendo cura di districare i nodi ma sembrava impossibile. Era come se Beatrice avesse racchiuso tra ogni ciocca di capelli una stilla di rabbia e una gemma di dolore, per farne trecce disordinate di vendetta. Stette in silenzio mentre faceva questa operazione pensando alla brutale violenza subita da quella piccola donna ma lei interruppe i suoi tristi pensieri:
«Devo averti cercato nei sogni»
«Attenta a ciò che dici, potresti bruciare viva per questo»
«Facciano pure ciò che vogliono al mio corpo! Devi capire che abbiamo un potere, il potere di Madre Terra, del sangue, della creazione!»
«Siamo qui povere e sole, a leccarci le ferite… capisco il tuo stato d’animo ma dubito sia vero ciò che dici. Siamo solo la costole di quei bruti».
«Siamo le madri e il coito di quei bruti, possediamo la loro essenza. Tu hai il potere!»
Dei rumori le distrassero. La madre di Agata si era svegliata affamata e chiamava cantilenante dall’altra stanza. Lei si scapicollò a portarle da mangiare e a informarla della presenza di Beatrice. La spacciò per una cugina dal continente e lei le credette.
Le donne fecero le pulizie, amministrarono i coloni che portavano i raccolti dal campo e imbandirono la tavola per i lavoratori, fecero le pulizie, il bucato, rassettarono nelle stalle e diedero da mangiare agli animali, fecero un tuffo al fiume e risero quasi felici, ammassarono il pane per l’indomani e finirono stanche sul giaciglio di paglia nel soppalco di legno, con il fumo del camino dalle foglie di eucalipto ad addensare l’aria di odori silvestri e sogni.
Prima di mettersi a letto Agata suonò il suo flato di Pan e Beatrice, rapita, respirava piano. Si sdraiarono e presto, più vicine del consentito, dormirono scambiandosi il fiato.
La mattina successiva trascorse come il giorno prima e così molti altri a seguire tra confidenze, vicinanze e maggior fiducia. Beatrice cucinava benissimo e le serate, sempre più calde, trascorrevano serene e balsamiche per gli animi, tra un pasto caldo speziato, un vino forte mesciato con fiori e chiodi di garofano e letture di poesie.
Erano ormai buone amiche anche se non si parlava mai dei genitori, nessuno, d’altronde, era mai andato a cercarla e lei non faceva cenno di muoversi. Non si spostava che tra la radura all’argine del fiume ma, a qualche miglio dal ponte, dirottava lo sguardo, come se il paese non fosse raggiungibile, anzi, non esistesse. Agata le lasciava il tempo necessario tenendo al suo bene sempre di più, così tanto che quando le era vicina sentiva qualcosa solleticarle l’ingresso dello stomaco e brividi mai provati sferzarle la schiena.
Ebbe la prova che qualcosa stava modificandosi tra di loro e soprattutto cambiando dentro di lei quando provò vergogna al fiume, una mattina caldissima di maggio. Mantenne gli indumenti intimi e si tuffò con grazia pudica. Beatrice, che era tornata solare e sorridente, le schizzò gocce d’acqua salmastra prendendola in giro e gettandosi tra le sua braccia.
Agata la guardò e affondò nei suoi occhi bruni. Non si era mai accorta che la sua lingua faceva uno strano ballo nella bocca per pronunciare certe lettere. E quelle fossette? La frangia troppo corta sulle tempie rilassate e i lobi delle orecchie coperte da piccole stanghette di metallo.
Era bella.
La sua pelle opalescente sembrava un diamante: il sole e i riflessi giocavano su di lei, danzando sul suo corpo, accarezzandole i confini e le curve.
Voleva diventare acqua per fluirle dentro, lenta, goccia a goccia.
L’atmosfera cambiò, come polarizzata improvvisamente, e l’aria vibrò attorno a loro.
Beatrice non ebbe paura quando Agata si soffermò troppo a lungo sul suo corpo bagnato nel tentativo di inseguire la luce iridescente attorno ai suoi capezzoli. Beatrice la guardò intensamente e Agata si sentì autorizzata da quello sguardo a continuare nella sua esplorazione, prima immaginifica, poi pratica.
Il suo cuore faceva dei salti mortali, intimando di arrestarsi a ogni centimetro in più che le sue mani sfioravano. Le carezzò lentamente le cosce, i glutei, i fianchi, le spalle. Omise il fulcro floreale del suo desiderio e le cinse il collo, sollevando lo sguardo estasiata per leggere un diniego o un assenso, una condanna o una preghiera.
«Ti prego!».
«Ancora una volta ti ho sentita nella mia mente!»
«Se mi senti» disse lei avvicinandosi al suo ventre e stringendole la vita: «se mi senti, fallo…».
Agata ebbe la sensazione che se avesse ceduto a quella tentazione non sarebbe più riuscita a tornare indietro. Immaginò che tutto sarebbe cambiato ma che molti pezzi mancanti avrebbero finalmente assunto il loro posto e tutto si sarebbe chiarito.
Le sfiorò il viso portandole i capelli dietro l’orecchio, annusando a fondo il suo collo. Odorava di muschio e fiori di campo. La sua pelle era così liscia da sembrare velluto.
Beatrice si avventò sulle sue labbra, disegnandone il contorno con le sue. Erano morbide e setose, carnose. Ogni tanto si fermava, le sorrideva e continuava a posare la sua bocca sulla sua, nel bacio più casto. I loro corpi divampavano e furono tenuti in silenzio ad implodere.
La razionalità ebbe la meglio su Agata che si svegliò dal torpore eccitante della braccia di Beatrice quando nella sua testa balenò l’immagine di porci imbizzarriti rotolare le vasche del mangime e inzozzare tutto. L’immagine disturbante l’allertò e volle recarsi a casa, di corsa, ancora bagnata, mentre Beatrice, con un piede ancora nudo la seguiva, inebetita, rivestendosi.
Capitolo III
La vecchia era seduta davanti il camino. Rimestava una zuppa in un coccio da cottura e cantava stralunata una nenia nel suo idioma stretto di montagna.
Era ancora bella anche se non dava alcuna importanza al suo aspetto. Cantava battendo il tallone sui mattoni nel camino. Stille di polvere si sollevavano turbinando. E poi tornavano a posto. E poi tonavano in aria, in un contrappasso eterno di movimento.
Fuori i cavalli nitrivano imbizzarriti ma alla vecchia non sembrava importare nulla del rumore del mondo reale. Doveva interrogarsi se gli uomini erano fatti solo di polvere o d’acqua. Non si accorse nemmeno quando il soldato ubriaco sfondò la porta, sfregandosi il sesso indurito.
Non si accorse quando si avvicinò al tavolo, ruttando, emettendo uno strano fischio mentre respirava.
Solo quando lui fu su di lei, barbaro, a sollevarle la gonna e metterla giù come una cagna, stringendole le reni e spingendola con la testa nel caminetto, che già poteva udire l’odore dei suoi capelli prendere fuoco.
Il primo colpo del suo sesso la lasciò senza fiato.
Si era dimenticata di possedere un ingresso; ora veniva brutalmente divelto da un ariete villoso. I suoi movimenti erano lenti, frenato dal vino ottenebrante.
Non riusciva ad opporsi, Viola, tanto era il suo immane dolore. Pensò a suo marito, alla sua morte, alla sofferenza che provò quando si spense qualche giorno prima della nascita di Agata. Ricordò la dolcezza delle sue mani callose, la pazienza quando bruciava il cibo, troppo intenta a leggere qual vecchio romanzo, della vergogna provata per le dicerie sul suo conto, delle sorprendenti dolcezze e cure di Agata. Tornò lucida, così presente a se stessa, da sentire tutto il dolore del mondo concentrarsi all’ingresso del suo sedere, dove picchiava una mano nodosa, come fosse un mulo da incitare.
Lo lasciò fare buona, conscia che se si fosse ribellata, avrebbe sentito più dolore. La sua mente era tornata incerta e voleva godersi quei ricordi, riaffiorati dal mare ingorgato delle sue viscere in oblio.
Lui finì, sporcando il pavimento. Poi decise che stava più comodo se le torceva i capelli e la guardava, rattrappito, mentre tornava dentro di lei stavolta più veloce ma meno vigoroso.
La presenza di lui era un lontanissimo ronzio. Pensò che questo silenzio lo facesse innervare come se fosse inesistente.
Cominciò a pizzicarla, morderla, darle dei ceffoni con il suo membro immobile, gocciolante e penzolante davanti al suo ingresso. I colpi si facevano più duri. Sentì distintamente un man rovescio procurargli la frattura della mandibola. Poi le volò via un dente. Aveva gli occhi fuori dalle orbite e sembrava quasi piangere, come se volesse vomitare dalle mani tutto il male del mondo. Ciocche di capelli erano incastrate nelle sue dita.
Decise che le facevano male i polsi. Brandì il forcone del camino, lo scaldò finché diventò rosso, tale che quasi fondesse, e glielo batté violentemente su una coscia.
Lei gridò.
Capitolo IV
All’altezza della stalla sentirono delle urla provenire dalla casa. Agata sbiancò e si fermò in mezzo alla radura. Beatrice corse più veloce che poté e spalancò la porta.
Viola era sdraiata carponi sul pavimento e una coscia, infuocata, emanava puzza di bruciato.
Lui aveva il membro moscio tra le gambe, la faccia stravolta. L’odore di uomo e vino era talmente forte da far venire i conati.
Chiuse la porta alle sue spalle e si inginocchiò a terra.
Lui la guardò divertito pensando che potesse essere un bocconcino prelibato.
Lei pose i palmi delle mani sulla terra e sollevò gli occhi al cielo, come se il soffitto fosse fatto di nuvole.
Agata batteva contro la porta piangendo, incapace di aprirla, come serrata da una forza oscura.
L’uomo si avvicinò a passi pesanti, strisciando verso Beatrice.
Lei lo fissò e in un solo istante tutte le forze lo abbandonarono.
Il suo membro si rinsecchì a sembrare cosa morta, vuoto involucro di impotenza.
Lui pianse come un bambino e si sollevò implorante di lasciarlo andare.
Beatrice gli lasciò il passo e corse ad abbracciare Viola, sudata, ridotta in brandelli.
Agata butto giù la porta e osservò la scena, inorridita.
Lui la oltrepassò, offeso, e le disse: «statt’accorta ca chilla è na magara».
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