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Un prodotto che si concentra sui dettagli del borgo e della sua storia, fra il reale e l’astratto, fra quello che si vede e quello che si può soltanto immaginare, in un filo logico “attraverso i sentieri del tempo e degli uomini, tra il respiro della terra e l’orizzonte sottile, baciati dal sole”.

Il titolo è Wonderful Habits – Meravigliose abitudini ed è il video – spot realizzato dal videomaker cosentino Francesco Cristiano, che insieme ad altri quattro partecipanti, è stato uno dei protagonisti della prima edizione del concorso “Ciak weekend – Realizza un video in 48 h” che si è svolto nel borgo di Roseto Capo Spulico dal 9 all’11 dicembre 2016, per regalare alla sua comunità uno sguardo e una visione inedite di un luogo ricco di storie, tradizioni e forte identità.

Vi auguriamo buona visione!

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Un weekend per raccontare Roseto Capo Spulico, le sue bellezze e la storia che avvolge il borgo, immerso nella magia di Federico II e della mitologia legata ad esso. È questa la sfida in cui si sono
cimentati cinque videomakers di diversa provenienza che, da venerdì 9 a domenica 11 dicembre 2016, hanno trasformato i vicoli del centro storico e le location più suggestive in un set cinematografico a cielo aperto. Un concorso alla sua prima edizione, nato dal desiderio di ricostruire la memoria collettiva, valorizzare le eccellenze del territorio e stimolare una lettura dei
luoghi assolutamente inedita.

“Ciak weekend – Realizza un video in 48 h”, un progetto che s’inserisce tra gli eventi della manifestazione “Serenate a Federico – Incontri d’Autunno”, ideato dalla redazione del portale
www.leggoscrivo.com, promosso dal Comune di Roseto Capo Spulico, Officine delle Idee, con il patrocinio del dipartimento di Studi Umanistici dell’Unical e di Calabria Film Commission, porta
con se’ l’obiettivo di promuovere il turismo esperienziale e far scoprire, attraverso le risorse identitarie e la voce delle comunità, l’anima dei nostri territori.

Salvatore Iantorno Asta accompagnato dall’attore e co-regista Pino Torcasio, Leonardo Calvano, Francesco Cristiano, Antonio Martino e Gianluca Salerno: sono questi i nomi dei registi e aspiranti tali che con creatività e stile da vendere hanno regalato al borgo di Roseto un fine settimana all’insegna del cinema e dello storytelling, coinvolgendo attivamente gli abitanti del posto, i veri
protagonisti dell’iniziativa. C’è chi ha scelto di ripercorrere le linee del genere documentaristico, chi lo spot di promozione
territoriale, chi invece ha costruito un corto e ci ha regalato una visione nuova della storia, importante perché alla base delle nostre radici, ma anche metafora essenziale per le nuove generazioni.
“Il futuro è nella storia” è infatti il titolo del video realizzato da Leonardo Calvano, il vincitore del concorso. Un corto/spot che racconta di un giovanissimo astronauta appena atterrato con la sua navicella spaziale sulla spiaggia di Roseto. Lo stesso che esplora il borgo, imbattendosi nei suoi abitanti, tutti appartenenti alla vecchia generazione. “La volontà è stata quella di voler sottolineare come il futuro della generazione di Gabriele Madormo, il protagonista del mio lavoro, risieda proprio nella valorizzazione del passato. Un dualismo generazionale – ci racconta il videomaker – che è proficuo e che dovrebbe rappresentare un valore aggiunto, un momento di confronto, necessario al futuro, che è in mano ai giovanissimi”.

Ma non sono mancate le sorprese! Il presidente di Giuria, il professor Bruno Roberti insieme al Caporedattore di Cronache delle Calabrie Francesco Graziadio, con l’assenso degli altri
componenti, hanno deciso di assegnare ad Antonio Martino, vincitore del premio Ilaria Alpi 2007, una menzione speciale. Un plauso per l’idea di regia e la forza documentaristica della sua
produzione, dal titolo “Radici”.

Per info e contatti:
[email protected]
www.quilafesta.it/serenateafederico
Fb: Serenate a Federico – Incontri d’Autunno

Tra le selve della Sila greca, culla di tradizioni arbëreshë, custode di una sapienza antica, scopro San Demetrio Corone, un luogo che non conoscevo ma che credo possa essere annoverata tra le mete di un itinerario storico – culturale che ripercorre le tracce bizantine, romaniche e normanne che secoli di dominazioni hanno lasciato impresse sulle nostre terre. Un incontro tra culture che genera ricchezza, non dissidio, perché forse un tempo ci si accostava al diverso, rispettandone i valori e le memorie. Come l’età normanna durante la quale il sincretismo artistico raggiunse il massimo splendore. L’elemento romanico si mescola dolcemente alle suggestioni bizantine, accogliendo spesso e volentieri spunti islamici. Un esempio evidente è proprio il Monastero di Sant’Adriano a San Demetrio Corone, costruito nel X secolo da San Nilo dedicandolo ai Santi Adriano e Natalia. La storia narra di una struttura distrutta dalle incursioni saracene, abbandonata e nel secolo XI donata all’Abbazia benedettina della SS. Trinità di Cava dei Tirreni dal duca normanno Ruggero Borsa. Ma è egli stesso, alcuni anni dopo, a restituire il monastero ai monaci basiliani consentendo loro di esercitarvi il rito bizantino. Ma è proprio in epoca normanna che Sant’Adriano raggiunge uno splendore artistico degno di nota. È in questi anni, infatti, che vengono datati i mosaici che offrono l’illusione di un vasto tappeto orientale disteso sul pavimento del tempio, così come lo definisce l’archeologo Paolo Orsi descrivendo l’impressione che avverte studiando la storia architettonica della chiesa. “Un’autentica tavolozza da pittore”. sono stati così descritti i mosaici di Sant’Adriano la cui superficie si compone di minuti elementi di pietra e lastre di marmo incastrati tra loro, dalle svariate combinazioni e colorazioni. Ma sono i soggetti raffigurati ad accrescere il fascino del mistero che avvolge l’antico monastero.img_4951

Nel primo campeggiano un leone e un serpente che si contendono una preda irriconoscibile. Su un altro è rappresentato un serpente che si avvolge in tre spire, strette al centro ove terminano con la bocca spalancata e la testa nera sovrastata da un corno. Ancora, un vigoroso felino, forse pantera, forse gatto, domina il terzo mosaico. Impressionante è il quarto e ultimo mosaico: un serpente, composto di minute tessere triangolari, si avvolge nelle sue spire a formare una sorta di “otto” con la coda. Che l’immagine del serpente rimandi alla tentazione demoniaca? Forse l’intento dell’artista era ammonire l’uomo sui pericoli sempre incombenti che lo istigano contro i comandamenti divini. Ma il mondo oscuro e complesso dei simboli affiora anche dal numero “otto”: un numero magico, dai diversi e reconditi significati. Otto sono i cieli visibili, le pene dei dannati, le ricompense dei giusti, i paramenti del sacerdote; ottava infine è la Casa della Cabala, dove l’uomo si prepara alla morte. Ottagonale era nella chiesa una conca, forse un fonte battesimale. Un tempio in cui si respira l’aria dell’enigma, dell’inconoscibile, degne categorie del Medioevo, età di pellegrini e vagabondi, di fede ed eresie. Epoca, il Medioevo, tra le cui letture preferite vi erano bestiari, lapidari ed erbari, dove animali, pietre e piante si caricavano di significati “altri” da sé. Sant’Adriano rispecchia tali atteggiamenti, arricchiti dalla meditazione bizantina oltre che dall’apporto romanico – latino e, dal XV secolo in poi, dagli usi e costumi albanesi. Echi arbëreshë, dunque, attraversano le vetuste navate del monastero, uniti agli sguardi di studiosi, turisti e curiosi che da più parti si recano a San Demetrio Corone, baluardo di un tempo antico ma immortale, eternato dalle pennellate di Franco Azzinari, l’artista dei luoghi del mito, l’artista che del quotidiano e del visibile ha fatto i suoi “simboli” cogliendone l’invisibilità. Perché la natura è tutto, anche ciò che non riusciamo a vedere.

Un esperimento di video verticale in giro per l’Italia. Creato specificamente per essere visto da cellulare.

A maggio di quest’anno avevo comprato un biglietto per Firenze, ho deciso di prolungare il viaggio a Roma e poi a Napoli. Un’esperienza simile – di divano in divano a casa di amici di lungo corso, senza l’ansia da prestazione turistica – l’avrei filmata con il telefono per conservarne un ricordo immediato e poco artefatto.

Ma sono un videomaker puntiglioso e allora ho provato a filmarla con una videocamera, soltanto in verticale.

 

L’idea di raccontare in un cortometraggio (realizzato per il Festival Abciak e selezionato tra i finalisti del concorso nato dalla sinergia dell’Ente Parco Nazionale della Sila e l’Associazione di Promozione Turistica “ABC della Puglia”) il viaggio in Calabria di Norman Douglas nasce dalla volontà di far riscoprire uno dei sentieri più impervi e affascinanti che unisce la Sila Grande alla Sila Greca, collegando così San Giovanni in Fiore, all’epoca descritta come la capitale della Sila, all’antico borgo di Longobucco.

Lo scrittore inglese Norman Douglas, dopo aver abbandonato le sue radici aristocratiche e affascinato dalle bellezze del meridione italiano, intraprende il suo viaggio all’interno di questi luoghi selvaggi e successivamente narrati in modo magistrale in uno dei più importanti libri scritti sulla nostra regione, dal titolo “Old Calabria”.
Il racconto in immagini si è concentrato sul carattere epico del viaggiatore, che parte per l’appunto da San Giovanni in Fiore per poi scomparire nei boschi della Sila Grande. L’ingresso invece nei territori della Sila Greca, è accompagnato dalla presenza e dalla forza della fiumara del Trionto, fra le fiumare più lunghe d’Europa.
Il cortometraggio in sostanza, narra della romanticità di alcuni paradisi silani e l’incontro di usi e costumi, racchiusi nell’animo dei borghi antichi che popolano la Sila.


Buona visione

 

Un giorno di festa in un posto qualunque, che poi tanto qualunque non è. A volte è solo importante capire cos’è per noi quel qualunque, quell’altrove che è tutto e niente, dipende da che angolazione lo guardiamo.
In questo caso, per quest’occasione, il luogo ha un senso di appartenenza, non per ragioni di nascita o che, ma per un attaccamento alle usanze e ai costumi che fan da collante, indipendentemente dal quartiere o dalla città in cui ci si è trasferiti.
Una famiglia e un gruppo di amici si divertono con poco, risate, gesti semplici, complicità e somiglianze, nel sangue, negli interessi in comune.
Nella provincia di Reggio Calabria, in un cortile con spicchi di verde qua e là e blocchi di cemento intorno, si celebra un rito: i presenti godono dell’allegria espressione dei loro occhi, quella stessa allegria così calda che combatte il freddo grigio calcestruzzo di città. Una carrellata di scatti ritrae un pomeriggio di festa. Volti nitidi alcuni, altri meno. Facce con solchi, rughe, vissuti, sofferenze e sguardi profondi, pieni di gioia, di speranza per quell’altrove che si progetta e si aspetta pieno di sogni, di riscatto.

La redazione di Leggoscrivo ha il piacere di condividere con la sua community il bellissimo lavoro del reggino Antonio Sollazzo, fotografo e giornalista calabrese classe ’62. Un reportage di sette scatti in bianco e nero dal titolo “Un giorno di Festa”, esposto in occasione dello Slow Festival nell’ambito della mostra “Immagini vaganti – festival nomade del fotoreportage”.

La mattina inizia con il profumo del caffè misto all’intensità del ragù della domenica, quello cotto lentamente e a fuoco basso. Dalle voci in cortile al borbottio della moca fino a quello del sugo che schizza sulle mattonelle, sono questi i rumori tipici della mia cucina calabrese, in un appartamento di un palazzo di 4 piani, con affaccio su strada e in lontananza il mare e un faro. Con modus operandi simile alla vita di paese, quel tipo di rilassamento che non cambia l’umore di nessuno, se non di qualche giovane tornato dal nord e che ha ormai incamerato quella frenesia tipica delle città caotiche e veloci, assaporo dolcemente il tepore del sole su un balconcino dalle mattonelle in cotto, addobbato di gerani e qualche panno steso, fresco di ammorbidente. Il mare è la cosa che più mi è mancata in quei 10 anni da fuori sede, e allora pensare di poterlo respirare a fondo, anche durante una corsa o un giro in bicicletta è la svolta, un desiderio che diventa reale. E allora indosso le scarpe da ginnastica e parto! Paola è un paese che si spalma bene tra il mare e la montagna, sta in mezzo insomma. Questo implica salite, discese e scorciatoie di ogni sorta per abbreviare il tragitto. Riscopro il gusto di camminare a piedi, non che prima non lo facessi, anzi, ma era ben diverso, almeno per il panorama intorno. Il mio tragitto è lento, nemmeno troppo lungo, nel mentre mi piace osservare quello che mi accompagna, che calpesto, che incontro sulla mia strada.

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Parto da piano torre, un quartiere storico, dove da adolescente non andavo quasi mai perché non c’era niente di rilevante, oggi ne assaporo i vicoli che si perdono tra le abitazioni e la panoramica, poco frequentata se non dagli abitanti che vi risiedono intorno. Continuo a scendere verso la marina: una discesa diventa una curva a gomito che diventa a sua volta un’altra discesa, lungo le canalette qualche rifiuto e ai lati della strada che percorro canne di bambù spezzate, i resti di una pulizia estiva realizzata senza troppa cura, solo la vista mozzafiato compensa il mio disappunto. Arrivo in un ingorgo, auto ricolme di voci di ragazzi, ragazze e bambini sovrastano il clacson di qualche conducente frettoloso. A pochi passi treni in arrivo e partenza da una delle stazioni più centrali della costa, simbolo della cittadina, crocevia di sguardi, storie di vita, colori di pelle e culture. Finalmente sorpasso i due ponti, dopo il buio la luce mi sorprende e sfiora la mia pelle con i suoi raggi.

3, 2, 1 partenza! L’asfalto è sotto le suole, la via dritta e una distesa blu alla mia sinistra. Corro a ritmo moderato, cercando di regolare il respiro, non sento odori pungenti né particolarmente inebrianti, ma mi godo lo spettacolo di piccole onde venate di bianco su un sottofondo musicale che più si addice alle mie emozioni, ai pensieri del mattino. La mente si libera da quelli negativi, si apre, fino ad abbracciare soluzioni creative a questioni spesso ingigantite dalla routine e a volte da piccole frustrazioni tipiche della nostra modernità liquida, proprio come la definisce Bauman, che ho letto a 19 anni senza conoscerne il nome ma solo per il verde sgargiante della copertina di un suo libro.
Non ho cronometrato il tempo, e se devo essere onesta non lo faccio mai, forse perché non mi va di darmi obiettivi troppo ambiziosi almeno nella corsa. So solo che quello è un tempo solo mio. È il tempo di essere se stessi e di ricongiungersi con la terra, la natura, la bellezza.

Tutti qui possiedono un catoio, piccole cantine sotterranee costruite nella roccia, ed è qui che si fa il vino, i dolci con il mosto, come la mostarda e il vino cotto, seguendo alla lettera le antiche ricette tramandate dai nonni, ed è qui che la gente si riunisce attorno a un tavolo per condividere e assaporare il tepore di un piatto e di un bicchiere di rosso di Palizzi, corposo e “incline” all’invecchiamento. Viti, viti dappertutto, fiore all’occhiello di un paesino nel sud più profondo della Calabria.


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Immerso in una superba natura, il borgo è abbarbicato a una rupe d’arenaria ai piedi dell’imponente castello e affascina subito per il suo centro medievale unico: “palazziate e solarate” di fantasiose soluzioni architettoniche, sottopassaggi, scalette e tetti di tegole ricurve, proprio come quelle che disegnavo da bambina, le uniche che conoscevo, giuste per le mie casette in Canadà, dove il sole splendeva sempre, gli alberi erano in fiore e le rondini volavano alte.

Ma torniamo al vino e alle sue tonalità marcate, da sempre il principe assoluto di Palizzi, inebriante e generoso in tutte le sue varianti. Me ne offrono un bicchiere durante la visita guidata tra le vie del centro storico e i catoi del paese. Lo assaporo con gusto e con aspettativa, molti mi avevano già parlato di queste tonalità e perciò era necessario constatare di persona. Insieme a me un gruppo di tedeschi ha sulle guance la tonalità del rosso rubino; sono felici ma parlano una lingua talmente incomprensibile che non capisco nemmeno una parola. Mi basta osservare i loro occhi che ridono, i movimenti del corpo e la gestualità, per comprendere il loro stato d’animo, o almeno credo.

Decido di seguirli, di accodarmi a loro, sono curiosa perché hanno intenzione di percorrere lo stesso cammino che fece Edward Lear alla fine del 1500, che realizzò un diario di disegni, collezionando panorami e centri storici italiani. Attraversiamo il ponte schiccio e passeggiamo nei vicoli del paese, ogni tanto non posso fare a meno di alzare lo sguardo e osservare il castello sulla rupe, protettore del borgo e dei suoi cittadini. Arriviamo ed è una festa, gli abitanti ci accolgono con entusiasmo, ci sediamo intorno al tavolo ed è subito come essere a casa. Edward Lear in quelle linee del centro storico di Palizzi ci aveva visto lungo, un luogo che resta dentro. Cercherò di tenerla a mente così Palizzi, il vino, la gente.

Pizzo Calabro, l’incantevole cittadina tirrenica del famoso tartufo gelato. Decido di scendere verso il mare partendo dal Convento di San Francesco di Paola, il santo calabrese. Ma la prima tappa è d’obbligo nella piazza principale: il primo desiderio da soddisfare è quello di assaporare uno dei gelati più buoni del sud.
Durante la passeggiata è una gioia per gli occhi e i sensi, tutti e cinque: sulla sinistra non posso fare a meno di notare la piccola Chiesa dell’Immacolata con la sua facciata bianco latte puntinata da dorate sfumature, curata nei dettagli scrupolosamente, elegante e in pieno splendore.

Dopo la sosta decido di arrivare sul punto più alto della piazza principale in modo da avere una visione differente, infatti riesco a scorgere la folla affacciata dalla grande terrazza e il castello aragonese Murat divisi dalla strada che scende verso il mare.
Ritorno giù e noto un’altra piccola terrazza che si affaccia sulla spiaggia dorata di Pizzo marina e basta poco per ritrovarsi di fronte alla Torre e all’ingresso del castello. Mentre scendo tra i vicoletti posso spiare il mare e mi accorgo che ogni veduta è diversa dalle altre. Camminando mi sembra di percorrere una strada che ha la direzione dell’immensità.

Arrivati quasi alla marina si intravede un grande arco in pietra che mi porta in uno dei tanti vicoli della parte storica inferiore del paese. Ormai ci siamo, la salsedine inizia a sentirsi e intravedo il tappeto di sabbia, la voglia di mettersi a piedi nudi e sentire le carezze dell piccole dune è tanta. Mi giro a 360 gradi e ammiro la parte superiore del paese e il castello che vigilano sul mare e le spiagge.

Mi rimane da calcare quel molo che si inoltra nel mare, arrivo alla punta e mi sento un piccolo frammento nell’universo, vedo solo il mare con il suo orizzonte pronto a inghiottire quel sole ormai stanco, ma pronto a ridare luce e illuminare le bellezze della splendida cittadina di Pizzo Calabro.