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Può un alimento identificarsi così tanto con un territorio? Se, come me, vi recate a Senise la risposta è sì. È qui, infatti, che il peperone si tramuta in elemento di culto e diventa una specialità IGP, marchio di Indicazione Geografica Tipica, nel 1996.

Il peperone di Senise si divide in tre tipi: appuntito, tronco e uncino, e vengono tutti piantati tra febbraio e marzo e raccolti a mano a partire dai primi dieci giorni di agosto. Di colore rosso porpora, corto, piccolo e a forma conica, il peperone di Senise assomiglia al peperoncino, ma ha un sapore dolce con una polpa sottile e povera di acqua che lo rende ottimo per l’essiccazione. Il peperone di Senise può essere mangiato fresco ma la sua preparazione ideale è, appunto, essiccato secondo metodi tradizionali. I peperoni raccolti sono disposti in lunghe collane fatte a mano con lo spago e vengono poi lasciati essiccare sotto il sole. Per completare la disidratazione vengono, infine, passati in forno. I peperoni “cruschi” sono un tipico piatto lucano e, per renderli tali, bisogna immergerli nell’olio bollente e salarli per farli diventare croccanti. Per condire i salumi, in questa parte del Pollino, viene usata una polvere di peperoni cruschi triturati chiamata “zafaràn pisàt”. Un sapore unico che riprodurlo diventa praticamente impossibile.

 

Non solo io mi sono avventurata nel Pollino cosentino per bere un vino particolare. Già nel Cinquecento, il moscato di Saracena era fatto partire da Scalea con le navi così da poter arrivare sulla tavola imbandita della corte di Papa Pio IV. Si narra che Guglielmo Sirleto, cardinale custode della Biblioteca apostolica vaticana, ne fosse molto goloso. Nell’Ottocento il moscato di Saracena gode di grande splendore e viene citato in molti trattati enologici. Di lì a poco, però, ha rischiato di sparire ed è solo grazie alla determinazione dei cittadini di Saracena se ancora oggi viene bevuto.

Il moscato si ottiene dalle uve malvasia e guarnaccia alle quali si aggiungono piccole percentuali di uva “adduroca” e di moscatello di Saracena.

Il tutto viene vinificato seguendo antiche tradizioni che prevedono la bollitura del mosto ottenuto dalla pigiatura dell’uva malvasia e guarnaccia al quale si aggiunge poi quello ottenuto dagli acini essiccati di moscatello che vengono attentamente selezionati e sottoposti ad una leggera pressatura.

Alla fine della fermentazione il prodotto finale è un vino ambrato e molto profumato con un sentore di fichi secchi e frutta esotica, di mandorle e miele.

Grazie alle tradizioni familiari questo vino è riuscito a riemergere avendo così l’opportunità di poterlo gustare ancora oggi. Ogni volta che ne bevo un sorso penso o racconto con piacere della mia visita nel Pollino, a Saracena.

Un modo per entrare a contatto con la natura e toccarla con mano, cogliendone i più intimi segreti e riempiendo l’anima di paesaggi e colori. Questo è il senso racchiuso all’interno dei “viaggi” organizzati dall’Associazione Inachis Calabria-Castrolibero che in questa seconda tappa, ha esplorato i territori a confine fra la Sila Grande e quella Greca.
Il rigido inverno inizia ad essere solo un ricordo e lentamente nei territori della Sila, tutto ritorna a prendere vita. La flora diventa sempre più rigogliosa e viva, regalandoci colori e profumi sgargianti, i corsi d’acqua in questo periodo, essendo molto carichi, regalano degli scenari spettacolari fatti di cascate e la fauna invece, inizia a risvegliarsi e a popolare le montagne.
Il nostro percorso, partendo dalla località ‘Fossiata‘, seguirà i sentieri del CAI 512 e 512a, portandoci a formare un anello che prima ci farà guadagnare Colle dell’Esca e poi Cava dell’Orso, appena più sotto rispetto al punto di partenza.

Attraversare questi luoghi, significa immergersi in uno degli angoli più remoti e ben conservati dell’altipiano silano, costituito da alcune delle foreste più antiche di sua maestà pino laricio.
Il percorso che iniziamo ad esplorare, è anche conosciuto come Sentiero del Lupo, poiché è un dato certo il fatto che l’emblema del Parco, per via della posizione geografica strategica, utilizzava e viveva questi luoghi. Immaginando la sua presenza, iniziamo a guadagnare quota fino ad un piccolo quanto caratteristico cocuzzolo fatto di granito silano, che ci porta ad una radura dove è possibile ammirare invece la maestosità di alcuni esemplari rigogliosi di pino laricio.
Decidiamo così di attraversare anche i territori impervi della Sila Greca, arrivando così a raggiungere Colle dell’Esca. La natura è fatta anche di uomini che popolano questa terra e quindi di storie che si tramandano, come quella che Domenico, nostro socio fondatore, ci racconta mentre gustiamo il nostro pranzo al sacco in un rifugio di fortuna. Secondo un racconto orale, il nome deriva infatti dal dialetto di Longobucco ‘code e li asca‘, che significa colle del muschio, per via dell’ombrosità a cui è esposta la zona, che ha permesso una crescita abbandonante su pini e faggi di muschio.
Riprendiamo il cammino che ci porterà poi a Cava dell’Orso, seguendo le tracce di sentiero a mezza costa, completamente avvolti nella natura, scendendo verso la vallata del torrente Fossiata. Quest’ultimo, ci regala in alcuni tratti delle splendide cascate stagionali.
Camminiamo in discesa seguendo sempre il fragoroso corso d’acqua, raggiungendo il suo letto e arrivando in alcuni punti a guadarlo per poter proseguire il cammino.
La maestosità della vegetazione, il sentirsi osservati dalla fauna selvatica, il fragore e lo spettacolo generato dai corsi d’acqua, ci regalano delle emozioni talmente vive da essere quasi tangibili.
Emozioni che difficilmente scorderemo e che arricchiranno il nostro spirito.

Il Santuario dove è custodita la Madonna del Pettoruto si trova a San Sosti, nell’alta Valle dell’Esaro che poi altro non è, che la parte più meridionale del Parco del Pollino calabrese, ai piedi dei monti Mula e Montea. Il nome pettoruto deriva da “petruto” cioè pietroso, roccioso, proprio come il paesaggio circostante percorso da centinaia di fedeli, ogni anno, per arrivare al santuario. Quando sono arrivato davanti a tutto ciò, mi sono reso conto della maestosità di questo posto.

Come capita per altri luoghi di culto del Pollino, anche per il Santuario della Madonna del Pettoruto esiste una leggenda che narra della sua edificazione e della statua amata dai fedeli.

La tradizione popolare attribuisce la realizzazione della statua della Madonna del Pettoruto a Nicola Mario di Altomonte. Siamo nel 1400 e l’uomo scappa dal paese natio perché accusato di omicidio. Durante questa latitanza, comparve davanti ai suoi occhi la Madonna con il Bambino e, questa visione, portò Nicola a scolpire, nella roccia di tufo, l’immagine. L’uomo venne poi scagionato dall’accusa di omicidio per la quale si professava, da sempre, innocente. Duecento anni dopo, l’immagine scolpita da quell’uomo venne ritrovata da un giovane pastore sordomuto in cerca di una pecora scappata dal suo gregge. Alla vista dell’effigie della Madonna con il Bambino, il pastore tornò a parlare e la Vergine gli affidò il compito di raccontare questa storia a tutti in modo da costruire un santuario a lei dedicato. Verità o leggenda, il Santuario della Madonna del Pettoruto oggi veglia su San Sosti e, dal 1979, è basilica minore per volontà di Papa Giovanni Paolo II.

La caratteristica principale della Madonna del Pettoruto è l’essere scolpita a mezzo busto e non a figura intera come normalmente accade per altre. Sotto l’occhio destro c’è una cicatrice a cui è legata un’altra legenda. Alcuni briganti volevano dimostrare che la Madonna ritratta era fatta di carne e per fare questo incisero parte del viso dal quale uscì fuori il sangue. Nella mano destra tiene un ramo di melograno, considerato simbolo di fertilità, che ha reso la Madonna del Pettoruto molto “invocata” dalle donne con problemi di sterilità. A settembre i fedeli si mettono in marcia lungo il percorso tortuoso che porta al Santuario per omaggiare la Vergine, mentre la prima domenica di maggio una bambina è la protagonista della “festa della cinta”. La giovane ha in testa un cestino adornato con fiori e seta e riempito di cordicelle di cera e si dirige verso il Santuario, dove questa cinta verrà distrutta e distribuita fra i fedeli che le daranno fuoco nei momenti di difficoltà.

 

La prima attività del progetto Pollino More Experiences promosso dall’Ente Parco Nazionale del Pollino in collaborazione con Officine delle Idee Società Cooperativa Sociale, che si è tenuta dal 13 al 15 ottobre e che ha visto giornalisti, opinion leaders, filmaker attraversare il Parco Nazionale del Pollino in lungo e in largo, dalla Basilicata alla Calabria, da nord a sud e viceversa, ha rappresentato un importante momento di conoscenza e promozione territoriale.

Tutti i partecipanti sono rimasti colpiti ed entusiasti della bellezza dei luoghi visitati, ma soprattutto stupefatti dalla complessità e dalla ricchezza di espressioni e di opportunità turistiche che il territorio del Parco può offrire. Hanno avuto modo di apprezzare non solo gli aspetti naturalistici e le bellezze paesaggistiche, che arricchite dalle sfumature autunnali hanno colorato il viaggio, ma anche i centri storici, le comunità, le tradizioni, la cultura arbereshe, l’antropologia e l’enogastronomia.

Certo in tre giorni si è potuto vedere solo una piccola parte delle risorse turistiche del territorio, ma di sicuro si è riusciti a rappresentare la complessità e la varietà dell’offerta turistica e quindi segnalare alcuni dei turismi possibili: dal turismo religioso (visitando alcuni dei Santuari più significativi), al turismo naturalistico (attraversando il cuore del Parco da nord a sud e viceversa e ammirando i Pini Loricati); dal turismo sportivo e d’avventura (il torrentismo nella valle del torrente Raganello ed il rafting nella valle del Fiume Lao) al turismo enogastronomico (con la degustazione dei prodotti tipici). Per soffermarsi, poi, sul turismo esperienziale quello dei centri storici, dell’antropologia, dei paesi arbereshe, dell’accoglienza.

In sostanza, si è voluto rendere visibile l’anima di un territorio che unisce un contesto naturalistico unico con comunità eterogenee, luoghi senza tempo, dove l’identità e le tradizioni sono un valore imprescindibile.

Percorrendo, fisicamente e sensorialmente, un ambiente vasto che ha alternato a paesaggi montani e centri storici, improvvisi e mozzafiato, all’orizzonte, scorci di mare.

Questa prima parte rappresenta solo l’inizio del progetto che continuerà anche nelle prossime settimane con una serie di attività che coinvolgeranno tutti i paesi del Parco Nazionale del Pollino, per valorizzare e promuovere un territorio che, seppure già ampiamente conosciuto e amato, ha ancora tantissimo da raccontare a livello nazionale ed internazionale.

Il Parco Nazionale del Pollino, come sottolinea il Presidente On. Domenico Pappaterra, con questa iniziativa vuole ulteriormente affermare la sua politica di sviluppo sostenibile da sempre incentrata sul coinvolgimento di tutta la popolazione residente nei comuni del Parco, creando rapporti sinergici e virtuosi tra il patrimonio ambientale e i centri storici; tra l’offerta turistica, naturalistica ed antropologica, per determinare forme di sviluppo e di crescita orizzontale quindi sostenibili in tutti i segmenti della società.

POLLINO MORE EXPERIENCES, IL VIAGGIO DI SCOPERTA E RACCONTO È SOLO ALL’INIZIO.

Nel Pollino esiste la capitale del sale. È a Lungro, infatti, che si può visitare ciò che resta di una delle più antiche e importanti miniere di sale in Italia. Lì dove i normanni facevano incominciare la via del sale, che percorreva il Pollino fino ad arrivare ad Orsomarso, oggi c’è un museo che ricorda tutta la vita della miniera salina.

Il Museo storico della miniera di salgemma celebra una parte importantissima della vita di Lungro e dei suoi abitanti senza dimenticare, e non poteva essere diversamente, le radici arbëreshë che affondano nella cittadina del Pollino tanto che sull’insegna del museo c’è anche la denominazione in lingua italoalbanese. Il museo si trova a Palazzo Martino, in piazza D’Azeglio, ed è stato inaugurato il 2 giugno 2010 dopo che per anni si è discusso sul riutilizzo del sito della miniera chiuso nel 1976.

Al suo interno sono custoditi memorie e oggetti recuperati dalla miniera e cimeli casalinghi donati dalle famiglie lungresi. Più di 180 disegni raccontano la vita della miniera insieme a foto, mappature, stemmi, divise e oggetti della vita quotidiana degli operai. Non viene dimenticata la cucina e la cultura contadina. All’interno del museo di Palazzo Martino, infatti, è stata ricostruita anche la cantina, luogo di svago per eccellenza degli operai, insieme ai posti in cui si preparava il cibo e agli attrezzi destinati al raccolto. A sottolineare l’importanza di questo aspetto c’è, inoltre, un quadro dell’artista lungrese Franco Senise che ritrae i terreni agricoli della zona di Costantinopoli.

Nel Parco del Pollino c’è anche il mare. Detta così, la frase farebbe rizzare i capelli in testa a chiunque ma se parliamo di Belvedere Marittimo tutto ha più senso.

Ci sono alcuni Comuni, e Belvedere Marittimo è fra questi, che estendono i propri confini fra il Mar Tirreno cosentino e il Pollino. La parte marina è a un passo dalle onde mentre quella storica ha alle spalle la montagna. La zona più antica di Belvedere Marittimo, siamo in provincia di Cosenza, è un borgo medievale poggiato su una roccia che volge il proprio sguardo sul Tirreno. Fra i luoghi più belli da vedere c’è la Chiesa del Rosario la cui data di costruzione dovrebbe essere certa perché, sul portale d’ingresso, troneggiano le cifre “1091” che la rendono, dunque, una costruzione a cavallo fra l’Alto e il Basso Medioevo. Entrati in chiesa, l’occhio cade subito sull’affresco di Santa Margherita, patrona delle partorienti. Usciti dalla chiesa, la nostra passeggiata può diventare un bel percorso di trekking, piuttosto che un percorso a cavallo, verso la montagna. Siamo in pieno Parco del Pollino e possiamo dirigerci verso i Monti dell’Orsomarso per arrivare fino al suo punto più alto, gli oltre 1900 metri di Cozzo del Pellegrino. Belvedere Marittimo, in poche parole, è una località godibile sia d’inverno che d’estate. Nella stagione dei cappotti possiamo andare a scoprire e conoscere le sue vette e i suoi paesaggi, nella stagione dei costumi da mare possiamo scendere verso le sue spiagge che ogni anno sono meta turistica non solo per i calabresi. E se facesse troppo caldo ci si può sempre rifugiare fra i monti del Pollino.

Giocavamo a pescare con steli d’erba, sulle sponde del lago Cecita.
Al nostro amo di margherite abboccavano solo farfalle.
Il naso, inzuccherato di torta di mele,
era invece il goloso approdo di formichine
che superavano i monti delle nostre spalle e le colline delle nostre guance
mentre sonnecchiavamo sul prato.
Un cavallo passeggiava lento con il muso nei cespugli di more.
Un pallone volava nell’aria dopo essere stato scalciato.
Raccoglievamo fragolette selvatiche tra i rovi e le foglie d’ortica.
Una coperta era una capanna, lo stereo dell’auto colonna sonora.
C’erano i grilli a fischiare beati e le api che amavano pane e salame.
Eravamo bambini, era la Sila, un luogo di fate e briganti.

Quando sono arrivato nel Pollino lucano, a Valsinni, ho scoperto una storia di cui non ero a conoscenza. Una storia che era sconosciuta finché gli studi di Benedetto Croce non hanno portato alla luce la vita e l’opera di Isabella Morra, poetessa di ventisei anni uccisa dai fratelli a causa di una relazione con Diego Sandoval de Castro. La vita di Isabella era legata a quella di Valsinni e del suo castello, visitabile ancora oggi, dove la giovane abitava insieme alla sua famiglia. Fu Giovanni Michele Morra a trasmettere alla figlia la passione per la poesia che, ben presto, s’innamorò delle liriche di Petrarca. La vita della famiglia Morra cambia quando arriva la dominazione spagnola e Giovanni Michele è costretto a fuggire a Parigi perché servitore del re di Francia.

Chi vive in questo borgo del Pollino racconta che nell’odierna Valsinni rimasero la madre della giovane con i fratelli ed Isabella fu affidata ad un precettore che le insegnò ad apprezzare gli autori latini. La poesia era l’unico sollievo per la giovane Isabella ed è in questo contesto che inizia lo scambio di lettere con il barone Diego Sandoval de Castro poeta e castellano di Cosenza, marito di Antonia Caracciolo. Quando i tre fratelli della poetessa scoprirono tutto ciò uccisero il pedagogo di Isabella (che assecondava la corrispondenza con Diego) e la sorella. Scapparono in Francia e, tornati in Italia, uccisero anche Diego Sandoval per vendetta.

Oggi il castello di Valsinni è monumento nazionale ed ospita un parco letterario in onore di Isabella Morra, giovane poetessa uccisa per troppo amore.

A Rotonda ho potuto visitare la casa del Parco Nazionale del Pollino e il Museo naturalistico e paleontologico. A Palazzo Amato, infatti, la cittadina lucana ospita l’interessante museo di storia naturale e di paleontologia che vede conservati, tra i suoi reperti più preziosi, il femore di un Uro vissuto nel territorio di Rotonda circa centomila anni fa, lo scheletro quasi completo di un Elephas antiquus (l’elefante antico) e la mandibola incompleta di un Hippopotamus amphibius, scoperti nella Valle del Mercure e riconducibili all’epoca interglaciale Mindel Riss.

L’elefante fu rinvenuto durante una campagna di scavi effettuata nel 1982. Parliamo di un animale altro 4 metri e lungo 6 con delle zanne che utilizzava anche per farsi strada sul proprio cammino. Nel 2005, invece, fu ritrovato lo scheletro dell’Hippopotamus insieme a cocci dell’età del bronzo che testimoniano la presenza dell’uomo nella Valle del Mercure sin da questa epoca.

Nel centro storico di Rotonda è possibile osservare paesaggi rupestri che ci fanno pensare ad un’epoca passata. Ci sembra che Rotonda inizi con l’inizio del mondo. La cittadina lucana è anche, e soprattutto, la casa del Parco Nazionale del Pollino e del suo Ecomuseo. Entrambi si trovano all’interno del complesso monumentale di Santa Maria della Consolazione. L’Ecomuseo del Parco rappresenta tutta la storia della montagna e dell’istituzione del Parco che la tutela, valorizza e protegge. Grazie a percorsi multimediali, pannelli grafici e informativi, è possibile ricostruire tutto ciò che è il Parco Nazionale del Pollino oggi e cosa ha rappresentato fin dalla sua fondazione. Si può visitare, inoltre, il bellissimo giardino didattico e una biblioteca di settore. Questa casa del Parco del Pollino l’ho sentita mia perché è realmente il luogo di tutti quelli che amano questa meravigliosa montagna.