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È il re dell’altopiano silano. È il protagonista di infiniti racconti e lo è persino di un film. Lo citiamo tantissime volte nella vita e nemmeno facciamo caso a quanto sia immerso nella nostra cultura e nel nostro immaginario. Lui è il lupo della Sila che continua ad essere il padrone dei boschi anche se ha vissuto un periodo di grande crisi a causa della caccia nei suoi confronti. Non è sempre selvaggio, ma non è certo diventato un animale da salotto. È il lupo della Sila dopotutto ed è il simbolo del Parco della Sila e lo si può ammirare nella riserva naturale di Cupone che ho visitato con la mia famiglia. Un luogo così bello e così ricco di natura che è un vero tesoro per la nostra Calabria.

Il lupo, fra i boschi della Sila, c’è sempre stato. Il colore del pelo del suo mantello varia a seconda dell’età, dell’habitat e delle stagioni. Quello che vive in Sila è bruno-fulvo con sfumature scure. Assomiglia ad una sorta di pastore tedesco ma la differenza fra i due sta nella forma della testa. La sua vita, che può raggiungere fino a quindici anni, si svolge nel branco regolato da rigide regole gerarchiche, anche se non mancano esemplari che decidono di starsene in solitaria.

Il lupo si aggira tra i boschi cibandosi di piccoli animali ma, quando l’istinto e la fame lo richiedono, va all’attacco di mammiferi più grandi come cinghiali e cervi. In passato ha attirato l’odio dei pastori perché prendeva di mira le loro pecore. Da qui è partita una vera e propria caccia al lupo silano che ha rischiato di sterminarlo finché non è stata dichiarata specie protetta. Ad aumentare il rischio di estinzione c’era anche l’usanza che portava la popolazione a regalare doni ai cacciatori che trascinavano in giro la carcassa del lupo ucciso. In virtù di tutto ciò, negli anni Settanta, le organizzazioni ambientaliste sono riuscite ad ottenere, da parte delle istituzioni, il divieto di caccia e la proclamazione del titolo di “specie protetta”.

Il lupo è stato descritto, molto spesso, come un animale cattivo e dei suoi “agguati” sono piene le favole che vengono raccontate ai più piccoli, Cappuccetto rosso su tutte, e questo non è un bene perché lo facciamo immaginare sempre e soltanto come una essere da combattere. Il lupo della Sila, raccontano con orgoglio a Cupone, è stato anche il protagonista di un omonimo film del 1949, girato sulla montagna calabrese, con Amedeo Nazzari, Vittorio Gassman e Silvana Mangano. Un mito quello del lupo che non tramonterà mai.

Foto: Ente Parco Nazionale della Sila

Il Lao viene definito da molti uno dei fiumi più spettacolari della Calabria dove poter vivere un’avventura piena di emozioni fra i monti del Pollino. Quello che più va in voga sul fiume Lao è il rafting perché questo corso d’acqua si presta alle caratteristiche di quest’attività. Bisogna affidarsi ad una guida certificata che conosce bene la zona. Questa ci farà salire su un gommone “speciale”, chiamato raft, che riesce a buttare fuori da solo l’acqua che entra all’interno e che ha la caratteristica di essere inaffondabile. Inizia così un emozionante viaggio fra le rapide in cui le nostre urla divertite si alterneranno ai colpi di pagaia per muoverci fino alla meta. Per vivere questa fantastica esperienza ci si può recare, ad esempio, nel paese di Laino Borgo dove diversi sono i soggetti che organizzano le escursioni lungo le gole del fiume Lao e diversi sono i pacchetti che vengono offerti: si va da quelli più soft a quelli più impegnativi per i veri amanti dell’avventura. Il percorso comincia ai piedi dell’abitato di Laino Borgo, dopo due chilometri di navigazione si raggiunge l’imbocco della gola e da qui la si percorre tutta per un tragitto di altri dodici chilometri. Un susseguirsi di emozioni che si vivono attraversando canyon di unica bellezza, caratterizzati dalle alte pareti rocciose e dalle varie cascate tra cui quella del Malomo, sicuramente una delle più suggestive.

Impostori o veramente in contatto con il Divino? Me lo sto domandando da quando ho conosciuto questa storia. A Bocchigliero, l’Unità d’Italia, porta una novità che sconvolge gli abitanti del paese. Nasce un movimento politico-religioso per mano dei contadini Matteo Renzo e Gabriele Donnici che chiamavano questa sorta di congrega con il nome de “I Santi”. Il piccolo paesino, che fa parte del vasto territorio del Parco della Sila, diventa il centro di questa nuova realtà dove i due contadini affermano di ricevere direttamente da Dio le istruzioni sul da farsi nella vita quotidiana. Con loro, a capo di questa “setta”, c’è una bambina di sei anni, la piccola Rachele Berardi, definita come “portavoce della Vergine”. Viaggiando in questo paese ancora oggi raccontano quest’antica storia.

Il movimento dei Santi di Bocchigliero desta subito grande scalpore anche se sulla loro reale attività non ci sono molte testimonianze se non ritratti effettuati dal giornale “Bruzio”, diretto da Vincenzo Padula e, soprattutto, degli scambi epistolari con il vescovo di Rossano raccolti dagli storici e dagli antropologi che si sono dedicati alla vicenda. Inizialmente furono accettati e tollerati dalla comunità di Bocchigliero, ma ben presto la loro insofferenza verso l’autorità religiosa e civile e le loro abitudini eccentriche provocarono una inevitabile reazione da parte del clero. L’attività dei Santi di Bocchigliero terminerà intorno al 1880 e sia Renzo che Donnici furono processati e condannati. Sono i “riti” praticati da questo gruppo a preoccupare la chiesa. Il più discusso di tutti era quello della “coricata”, che aveva lo scopo di provocare l’eccitazione senza però cedere nell’atto sessuale. Una sorta di prova di resistenza al peccato dove i seguaci giacevano senza toccarsi, completamente nudi e in totale promiscuità di sesso e di età. Secondo alcune ricostruzioni storiche del tempo, pare che molti bambini nascessero in seguito al rito e questo stava a significare che qualcuno, a quel peccato, aveva ceduto…

Non si conosce bene la data esatta in cui nasce il movimento di Renzo e Donnici ma si sa che fu dopo l’Unità d’Italia e che il suo culmine avvenne attorno al 1876. Fu questo l’anno in cui i due, con alcune lettere, spiegano all’Arcivescovo di Rossano il loro operato e si difendono dagli attacchi del clero “tradizionale”. In merito alla “coricata” spiegano, in questo carteggio del 1876, che «Noi stiamo uniti con donne nei nostri esercizi di notte e di giorno, e perché il Signore ci ha chiamati a combattere i nemici, il mondo, la carne ed il demonio, noi l’abbiamo combattuto con vincerlo, la carne pure la vinciamo col starci uniti, abbracciandoci e standoci anche nudi innanzi alle medesime, a dormirci pure, ed il Signore ha mortezzato la nostra carne, che non sentiamo stimoli, perché il nostro corpo è morto non esiste che in figura. Il mondo s’inganna quando vede queste nostre azioni e peggio che se ne scandalizza. Noi abbiamo una guida, ch’è una ragazza di cinque in sei anni, dessa è tutta dotata di Dio, dessa guida, ha diverse visioni, è un angelo che porta le notizie della Vergine Maria e ci dice quello che dobbiamo trattare nella compagnia. Essa inoltre ci leva ogni dubbio che noi abbaiamo nella nostra mente e ci chiarisce la nostra coscienza e mantiene la pace nel nostro cuore».

Renzo e Donnici, quindi, crearono un movimento religioso che si sostituisse alla politica perché, negli anni post unitari, tanto era il malcontento a causa degli stenti, la popolazione reclamava cibo e terre da coltivare oltre ad avere una esenzione dalle tasse. Fra i documenti dell’epoca emerge il forte malcontento della popolazione verso quella che oggi chiameremo “classe dirigente” che veniva vista interessata solo alla spartizione delle terre. Anche i preti erano nel mirino perché considerati come parte di tutto questo sistema. I Santi di Bocchigliero hanno, dunque, la volontà di «sostituire la classe religiosa falsa e bugiarda, con uomini onesti e degni di impartire i sacramenti».

Erano degli impostori che approfittavano della salda fede di tanti abitanti di Bocchigliero dicendo di parlare con Dio oppure volevano contrastare il clero che li contrastava a loro volta? Il dubbio e il fascino di questo movimento restano ancora attuali e irrisolti. C’è chi riferisce, ancora oggi, che il movimento si sia sciolto nel 1878 quando le pressioni dei preti e della nobiltà diventano schiaccianti e, soprattutto, quando Gabriele Donnici, insieme al fratello Abele, fu arrestato con l’accusa di omicidio colposo per aver provocato la morte di una donna a seguito di percosse (una vicenda esterna alle attività della setta). A Matteo Renzo, una volta sciolto il movimento, fu affidato dal Comune l’incarico di custode. Una storia affascinante che si racconta ancora fra le montagne della Sila cosentina.

Una bellezza al centro di una bellezza. Questo è il primo pensiero che ho fatto quando ho visto il Santuario della Madonna delle Cappelle di Laino Borgo che si trova proprio all’interno di uno splendido paesaggio naturale che accoglie quello che viene anche chiamato Santuario della Madonna dello Spasimo.

Fu costruito per volontà di un pellegrino del luogo, Domenico Longo, ed è formato da una chiesa e da 15 cappelle più piccole al cui interno vi sono diverse rappresentazioni della vita di Cristo, dalla sua nascita alla morte, e della vita della Vergine. Inoltre ogni cappella è affrescata con frasi tratte dal Vangelo. Nel 1557, appena rientrato da un viaggio in Terra Santa, Longo fece edificare cinque cappelle con le suggestioni provate in quell’esperienza. Poi, nel corso del tempo furono costruite le altre cappelle.

Entrando nel Santuario possiamo vedere sul soffitto la Deposizione di Gesù mentre le pareti sono decorate da due altari, uno dedicato alla Santissima Trinità e l’altro al Battesimo di Gesù. All’interno era custodita anche la statua della Madonna dello Spasimo che rappresenta la Vergine addolorata con il cuore trafitto da sette spade che simboleggiano i suoi dolori. La statua ha cambiato denominazione negli anni Novante quando, incoronata da Papa Giovanni Paolo II, prende il nome di Santissima Vergine Incoronata delle Cappelle con il capo decorato da una nuova corona d’oro, offerta dai fedeli, e pietre preziose realizzate dall’orafo calabrese Spadafora. La statua della Madonna dello Spasimo, purtroppo, è stata rubata nell’estate 2010 insieme alla statua di un Gesù Bambino.

Se si levano tre lettere al nome “Magisano”, questo diventa subito magia. E lo scenario della Cascata delle Ninfe ti dona subito l’idea di essere in un posto incantato. Quasi, quasi ti viene da pensare che saltino fuori fatine con le ali che ti condurranno fra quelle acque per trovare calma, serenità e altre mille meraviglie. Alla Cascata delle Ninfe di Magisano, nel catanzarese, si arriva attraversando quella che qui chiamano la Foresta Eterna. D’altronde come si potrebbe arrivare in un posto così da fiaba senza passare un altro luogo che sembra essere uscito dai libri?
Alla fine di questo sentiero si arriva in una gola formata da due pareti fatte di roccia. Prima di giungere alla Cascata delle Ninfe, ci balzano agli occhi delle piccole cascate che nascono da queste imponenti rocce. La cascata è spumeggiante, sbuffa e il potente getto finisce in una sorta di laghetto che piano, piano scivolerà per la gola.

Il rumore della serenità rimbomba mentre sto lì a guardarla. Tutta quell’acqua scroscia che sembra quasi una poesia di Pascoli. Le sensazioni sono magiche ma, fortunatamente, si tratta di realtà. Quando ci si immerge si ha come l’impressione che tutto l’universo sia in pace più totale con te. Dentro di te. E gli elfi e fate sembrano essere lì con te a lavarti la schiena. A toglierti l’orrore dall’anima, le oscurità delle incertezze di ogni giorno. Gli occhi guardano di fronte e vedono il percorso fatto per arrivare sino a qui dove si possono ammirare decine di alberi maestosi. La gran parte sono querce. Ti viene da pensare che qui abbiano ambientato qualche film legato alle legende dove proprio questi alberi spostano due dei loro rami, dalla loro chioma, per tramutarli in braccia e mani che ti accarezzano e sembrano dirti: «Entra, vieni a godere questo meraviglioso paradiso naturale che ti offriamo». Un posto bellissimo che mozza il fiato. A Magisano si diventa un tutt’uno con l’acqua e senti anche tu di essere parte di quelle rocce secolari, di quelle gocce millenarie.

È un vero e proprio paese abbandonato ma non per questo, Laino Castello, ha perso la sua bellezza. La storia che mi hanno raccontato di questo posto è molto affascinante. Siamo all’inizio degli anni Ottanta ed un forte terremoto fa in modo che gli abitanti di Laino Castello debbano andare via. C’è chi si sposta verso Laino Borgo, chi in altri paesi sparsi fra il Pollino calabrese e quello lucano.

Il territorio è molto complesso, si spazia dai 1291 metri del monte La Destra ai 175 metri della parte più bassa del fiume Lao. La storia di Laino Castello è legata a quella di Laino Borgo. I due paesi, per molti anni, rimasero uniti sotto l’unico nome di Laino Bruzio poi si divisero definitivamente nell’ottobre del 1947. In questo territorio ci sono tracce della presenza di popolazioni magnogreche, degli enotri e dei bizantini nonché dei monaci che seguivano la regola di San Basilio.

I luoghi più interessanti da vedere sono la Chiesa Madre di San Teodoro, d’origine bizantina, in cui era custodito un trittico di Pietro Befulco raffigurante la Madonna in trono con Bambino ed i Santi Teodoro e Gerolamo; la Chiesa di Santa Maria delle Vergini e i ruderi del castello longobardo, adibiti a cimitero in seguito all’editto di Saint Cloud del 1804.

Un’altra peculiarità di Laino Castello è il Borgo-albergo, un progetto sostenuto dall’amministrazione comunale e finalizzato al recupero dell’antico borgo, grazie al quale sono state già ristrutturate alcune strutture che offrono ai turisti la possibilità di visitare questo straordinario “paese fantasma”.

Viaggio in mtb in 3 capitoli

Cap.1

I sentieri del cielo

Inseguo briganti. Voglio raggiungere le “Pietre”, il luogo dove si radunavano, seduti a cerchio sui massi, i “ribelli” di Calabria. Come gli indiani d’America durante i loro Pow Pow, Ercole mi racconta come essi usassero ritrovarsi periodicamente sul Volpintesta per discutere, contrattare e sfuggire agli sguardi indiscreti dei “piemontesi”, i soldati del nuovo regno d’Italia. Il terreno è accidentato, la bici sobbalza, davanti a me pedala agile Pino, questa volta senza le due ruote a motore. Ansimo per la fatica, mentre seguo il filo di parole che dicono di luoghi perduti nel tempo e nello spazio.
Mi ritorna alla mente il romanzo, I sentieri del cielo, di Luigi Guarnieri: «Catene di montagne intervallate da foreste, vallate e torrenti, paludi e cascate, gole e strapiombi, canyon e praterie, e pascoli e burroni e boschi e strani pinnacoli di roccia». È la Sila, la scotìa, la terra delle tenebre dove tutto è possibile. Anche di rimanere sorpresi per un settembre caldo e azzurro di luce. Abbiamo da poco guadato il fiume. I riflessi meridiani del sole sull’acqua cristallina lanciano lampi sui visi eccitati dei bikers.
Pedaliamo lungo l’argine del fiume per imboccare lo sterrato che si inerpica verso la vetta. Siamo nelle lande dei briganti. Il cuore della Grande Sila. Ercole ci guida sicuro per strade praticate fin da bambino. La tenuta della famiglia si trova in una delle aree meno frequentate dell’altipiano, nei pressi dello splendido laghetto di Ariamacina. Dieci chilometri ci separano da Camigliatello, ma pochi lo conoscono. Alcune ore prima, ad inizio escursione, solo l’aria fresca del mattino silano, allertando i sensi, ci aveva salvati da una enorme mandria di bovini transumanti che si era parata all’improvviso dietro una curva.
I guardiani non inforcano più i cavalli, ma potenti fuoristrada con cui conducono gli armenti lungo la stretta valle del fiume Neto verso le basse terre dello Ionio. Moderno e antico si incrociano negli sguardi pazienti e duri di questa gente di Calabria. Sono forse i discendenti dei feroci briganti di un tempo? Nuno osservava perplesso uomini e bestie. Chissà se nel suo Portogallo è mai esistita una simile genìa?
Ma ora eccoci qua, fatichiamo non poco nei tratti più aspri, ci toccano ancora diversi chilometri prima di arrivare alla quota dei 1800 metri. Altissimi fusti di larice svettano così in alto da farci apparire gnomi dei boschi, su ruote. Ercole mi racconta del nonno, amministratore di beni baronali, della sua segheria e dell’acquisto nel dopoguerra di terre feudali. Chissà se il barone venditore era imparentato con la famiglia Pietramala trucidata dal brigante Boccadoro? Il ricordo dei soldati spietati e dei briganti feroci aleggia nella mia testa. E i loro tesori? Chissà se non avesse ragione il padre di Ercole a cercarli lassù sul monte Volpintesta.
Ora spingo sui pedali dietro ad Enzo (a cui sarò debitore – per i freni sistemati – di questa immensa giornata), venuto fin quassù da Castrovillari, come Francisco, che con le sue parole mi distoglie da quegli uomini rudi che conoscevano a menadito questi luoghi impervi, circondati da spie, fiancheggiatori e da traditori. Saliamo, saliamo, la pendenza è forte, qualcuno rimane indietro. È Domenico, che si ostina a non allenarsi, ma è così caparbio da arrivare ovunque. Certo centocinquanta anni fa piemontesi e briganti non glielo avrebbero perdonata questa “leggerezza”. Da entrambe le parti non c’era pietà per nessuno. Dai, su, ancora uno sforzo, le tracce dei banditi ci conducono al loro rifugio, dove si arriva attraverso i “tratturi du cielu”, «percorsi abbandonati che solo i guerriglieri più incalliti sapevano ritrovare nel pieno dell’inverno».
La casa in rovina, una volta fortificata, ci guarda passare veloci in mezzo all’afrore di resine, muschio e bestiame, finché davanti a noi si spalanca la cima pratosa dell’antico raduno. Qualche sasso a ricordare la Storia, in basso l’altipiano di laghi, a destra e a manca il verde cupo dei pini, a perdita d’occhio, allora la mente rivive il tono delle stagioni calabresi, che era quello della disperazione, della sofferenza.
Era quello di uomini, donne, vecchi e bambini che conducevano le loro avvilite esistenze chiusi in misere capanne, insieme alle poche bestie che servivano a sfamarli. In quei villaggi sperduti sull’altipiano silano trascinavano le loro esistenze per sentieri, pascoli e mulattiere, dimentichi delle speranzose giornate della venuta di Garibaldi e delle sue promesse: la terra ai contadini e ai bovari. Onore e orgoglio erano le uniche cose che possedevano in abbondanza, insieme a vecchi archibugi, coltellacci, roncole e qualche revolver, che servivano a combattere contro i nemici del Nord, gli “stranieri”, impreparati a capire quella Calabria. Una terra misteriosa e incomprensibile, dove dappertutto erano i nemici, dove gli abitanti parlavano una lingua sconosciuta. Una terra magica popolata da arcane figure. Dove era difficile distinguere il vero dal falso, dove la diffidenza per le autorità e la violenza erano compagne di vita. Dei calabresi. Di allora e di oggi. Via. Il vento in discesa spazza ogni triste pensiero. Giù, la civiltà, i sentieri non corrono più verso il cielo, ma attraversano campi di patate, che al tramonto ci portano a casa.

Cap.2

Il sentiero della fede.

C’è una Sila sconosciuta, ancora misteriosa, che solo le persone del luogo possono conoscere. Quelli di Germano, almeno i più vecchi, sanno che su, verso Arnocampo, possono rintracciare vestigia di antichi luoghi, ormai perduti, dove ci si recava nei secoli passati non solo a seminare, raccogliere legna o allevare bestiame, ma anche per pregare.
La rugiada brilla sui prati di Zarella nella fresca e luminosa aria silana. C’è qualcosa di meglio di un buon caffè in questo mattino di autunno? Ercole ci accudisce premuroso prima della partenza. La casa degli avi, isolata nel cuore della Grande Sila, è la muster station adatta alle escursioni più particolari.
I boschi del Cupone e il laghetto di Ariamacina sono a pochi chilometri, eppure – per fortuna -risultano praticamente celati allo sguardo del turista, innanzitutto locale, che è coinvolto solo dalla vicina e volgare Camigliatello, dove gozzovigliare e lasciare rifiuti.
Eviteremo del tutto il borgo silano perché abbiamo intenzione di inoltrarci lungo la valle del fiume Neto per poi risalirne i bordi boscosi verso Serra Ripollata e Cozzo del Principe.
La luce è intensissima tanto da far risaltare ancor di più il verde dei prati e gli oscuri larici silani. Le nostre bici sono pronte, preparate a puntino, le catene e gli ingranaggi ben lubrificati, i freni a posto (le discese saranno ripide nei single track), le borracce piene, gli alimenti e i ricambi negli zaini. Le escursioni non devono mai essere sottovalutate, soprattutto quelle nel Gran Bosco d’Italia. È facile smarrirsi, o avere guasti ai velocipedi.
Partiamo in leggera discesa verso Germano, il vento frizzante ci frusta il viso, rimuovendo le ultime stanchezze notturne. Felici come ragazzini pregustiamo le sorprese che ci aspettiamo dalla sempre incredibile Calabria. Intanto costeggiamo il fiume Neto che ci scorre a lato con le sue acque cristalline, a volte lente a volte turbinose. Mandrie di bovini si inzaccherano pascolando sulle rive ombrose, mentre puledri scalcianti galoppano via al nostro passaggio.
Nulla è immutato in queste lande da quando decenni fa Giuseppe Isnardi scriveva: «L’autunno porta alla Sila, con le prime nebbie e i rapidi freddi crepuscolari, una novità che ne muta vivacemente l’aspetto. Il rosseggiare dei faggi in mezzo al nero delle pinete e quello degli ontani lungo il corso dei fiumi infiamma tutto il paesaggio».
Dopo una decina di chilometri Angelo ci segnala che è il momento di svoltare a sinistra perché dobbiamo prendere la stradina sterrata che sale nella fitta foresta.
La salita è dura, a volte sconnessa per il transito dei fuoristrada che hanno scavato crateri nel fango. L’acqua, caduta in abbondanza nei giorni precedenti, rende la pedalata a volte difficile, ma noi procediamo concentrati nel nostro passo abituale. Fabio va avanti e indietro, facendo la spola tra le nostre fatiche. Davanti ad un incrocio è costretto a fermarsi. Dove andare? Ci raduniamo per decidere. Passano i minuti quando da sinistra scende un uomo con un lungo bastone in mano.
È un escursionista solitario, un signore sessantenne di poche parole, antico nei modi e nel vestire, con un grande cappello, scarponi e calzoni di velluto. Ha le sembianze del buon pellegrino. E infatti ci indica la retta via. Una cosa ci tiene a sottolinearci prima di allontanarsi in fretta: “A circa tre chilometri incontrerete una casa diroccata, che accoglieva decenni fa suore di clausura. Vi si rifugiavano per pregare. Fatelo anche voi. Pregate”. Guardo le facce interdette dei miei compagni. Fuori da quel contesto avrei sorriso, ma ora non sembra il caso.
Ripartiamo in silenzio assorti nei nostri pensieri. Attraversiamo un grande prato dove a malapena si indovina il sentiero. Ci salva un segnale del Parco. Il tempo di rifiatare ed ecco sbucare dietro una curva un rudere. Sarà il rifugio delle suore? Tracce di fuoco sulle pareti mi fanno venire in mente però un’altra storia. E se fosse invece la cascina che nel 1863 bruciarono ad Arnocampo i briganti capitanati dal famoso Pietro Monaco e dalla sua compagna Maria Oliverio detta Ciccilla?
Il dubbio non si scioglie nemmeno quando dopo mezz’ora davanti a noi si para un’altra costruzione, più imponente, una tipica casa silana fortificata. Quale delle due è quella dove si ritiravano periodicamente le suore? Comunque sia, di una cosa siamo sicuri: bisognava aver coraggio a vivere in questi luoghi così selvatici. L’isolamento dei luoghi infatti alimentava furti e violenze. Oggi è malinconico residuo del tempo andato. Ci fermiamo pensando alle oranti isolate quassù per mesi. Il tempo sembra fermarsi.
La luce comincia a declinare, l’aria si fa più fredda, ci riscuotiamo e imbocchiamo il sentiero ora in breve discesa, ci infiliamo tra faggi altissimi. La strada dopo un po’ riprende a salire ripida, mentre una carica incontenibile di energia sprizza dalle nostre ruote carrarmato che si aggrappano al pietrisco come ventose. Trascorre circa un’ora, pedalo isolato in testa, quando da lontano noto nell’incavo di un albero una macchia bianca. Cos’è? Mi avvicino e d’istinto urlo: “Fermi! Presto, venite. Nel grande larice c’è una statua della Madonna. Chissà chi l’ha messa lì? Chissà…Risaliamo l’ultimo colle ed eccoci a Serra Ripollata.
Straordinaria visione: «Vista da un punto elevato, la distesa dei boschi che orla l’altipiano e che copre i fianchi delle valli apparisce tutta chiazzata di un rosso vivo che dà quasi un’illusione fugace di una nuova vita, ma che di giorno in giorno il cadere delle foglie attenua e fa scomparire, sino a che la prima neve viene a dare alla Sila l’aspetto invernale che conserverà sino a marzo e all’aprile, quando tutta la grande distesa delle erbe si risveglierà in attesa del risalire dal mare e dal piano degli uomini industriosi e delle loro greggi e dei loro armenti». (G.Isnardi, Calabria geo-antropica)

Cap.3

Sila ovvero la Scozia

Non ci crederete, ma pochi giorni fa pedalavamo in Sila praticamente a mezze maniche. Siamo nei pressi di Silvana Mansio, è l’ultimo mattino di novembre e ci troviamo davanti alla piccola stazione di S.Nicola sulla vecchia tratta Camigliatello-S.Giovanni in Fiore delle Ferrovie della Calabria.
Cosa tristissima, i treni non vi transitano più da anni, anzi, dei vagoni ci sono, ma sono ora utilizzati graziosamente come ristorante e non per viaggiare.
Hanno provato i nostri massimi dirigenti ferroviari e (soprattutto) regionali a ravvivare la linea anche con il treno a vapore per attrarre i turisti ma hanno rinunciato per “costi elevati e scarsità di viaggiatori”. Mah! Sono gli stessi che non riescono a risolvere il problema della frana che ha travolto qualche decina di metri di binario tra Rogliano e Soveria Mannelli. Il trenino che va a sud di Cosenza ora si ferma nel capoluogo del Savuto. Eppure i viaggiatori erano tanti dal catanzarese. Che dire? Si rimane basiti dalle possibilità inespresse della nostra regione. Una di queste è quella che ci apprestiamo a descrivervi. Il lago di Ariamacina quanti lo conoscono? Lì vogliamo dirigerci con le nostre biciclette.
Ottenuto sbarrando il fiume Neto, il lago è un piccolo invaso artificiale costruito per scopi idroelettrici intorno alla metà degli anni ’50 e come tutti i laghi della Sila è così ben integrato nel paesaggio da sembrare lì da millenni. Non esagero dicendo che è uno dei più bei luoghi della Calabria.
Francesca, ad esempio, non lo conosce, eppure è una donna che ha tanto girovagato per la regione; è un po’ timorosa delle sue forze (“Ce la farò a completare il giro di trenta chilometri?”). Mia moglie Gabriella, invece, è sicura di sé, sa di quell’angolo di Sila per averlo frequentato più volte, ed è già scalpitante sulla bici; Barbara appare incerta, forse non ricorda di esserci già stata con suo marito Enzo.
Guido il gruppetto di sei biker prendendo inizialmente la vecchia statale che corre parallela alla strada di grande collegamento Tirreno-Ionio. Discesa di un paio di chilometri in direzione località Righìo, poi prendiamo una stradina sterrata praticamente pianeggiante.
Il suono dell’assoluto silenzio si diffonde nell’aria insolitamente tiepida. Nonostante siano le 10 del mattino, a quota 1200 metri ci sono 18°. Incredibile. Chissà a mezzogiorno? Intanto pedaliamo in mezzo a prati e arativi di patate, sfioriamo boschi e recinti di animali, finché arriviamo ad uno dei classici cancelli per il controllo del bestiame (dopo aperti richiudeteli sempre, mi raccomando).
Ci fermiamo per ammirare un bell’esempio di casa fortificata silana. Erano costruite per resistere agli assalti dei briganti. Che bella! Un enorme cane nero, lì accucciato, ci guarda sornione, ma è meglio non fidarsi, ripartiamo subito, orsù. In fila indiana procediamo in leggera salita e ci infiliamo nel bosco di larici, abeti e faggi così fitto che ci impedisce ancora la vista del lago.
Dov’è? Dov’è? Svoltiamo una curva a sinistra ed eccolo all’improvviso ci si para davanti giù in basso. Le acque sono così immobili per mancanza di vento da sembrare una pista da volo. Circondato da foreste e sovrastato a est dai 1730 m. del monte Volpintesta il lago è così incantevole, da assurgere a moderno simbolo di quella pittoresca Calabria che tanto affascinava i viaggiatori del Grand Tour. Viene da pensare: “Meno male che lo conoscono in pochi”. Restiamo in meraviglia interi minuti.
Il lago di Ariamacina fa parte del Parco Nazionale della Sila, è oasi naturalistica importante per la presenza di uccelli migratori acquatici, addirittura è uno dei pochi luoghi italiani in cui nidifica lo svasso maggiore. Ci immergiamo pedalando in discesa nello splendore del lago, a breve distanza stormi di uccelli si levano decollando dalle acque. In testa con Gabriella non possiamo fare a meno di guardarci e commuoverci per lo spettacolo straordinario che ci si para davanti. Non abbiamo bisogno della postazione di birdwatching costruita per osservare uccelli che dovrebbero essere in Africa e ancora sono in Sila. Che fortuna!
Tiriamo avanti, seguendo lo sterrato che percorre la costa, superiamo una rete, aggiriamo un colle petroso e raggiungiamo il torrente Righìo. Una passerella instabile ci permette di superarlo, poi scaliamo un altro colle di massi granitici per poche centinaia di metri e ci lanciamo a capofitto in discesa verso il fiume Neto, guadandolo sulle bici. In quel momento sentiamo un rombo. Cosa? Tendiamo le orecchie e vediamo a distanza l’orrore: alcuni veicoli motorizzati a quattro ruote percorrono fastidiosamente i viottoli intorno al lago.
Siamo indignati ma impotenti, pedalando raggiungiamo un piccolo villaggio con una graziosa torre agraria adibita ad agriturismo, passiamo in mezzo alle case e, infine, ci fermiamo sull’ampia riva nord del lago. Ora l’Ariamacina si distende tutto davanti a noi. È impressionante pensare che siamo a pochi chilometri da Camigliatello, eppure così lontani dal mondo civile. Angelo rincuora Francesca, triste perché il giro sta terminando, ma è contento perché lei ha dimostrato carattere. Da poco in mountain bike ha saputo superare prove difficili. Ecco ora la diga, poi la riva orientale, che ci danno modo di salutare quel luogo stupendo, infine volgiamo al lago le spalle e, oplà, l’ultimo strappo e siamo alle auto.
Tra qualche giorno la neve comincerà a cadere abbondante e ci vorrà primavera per ripercorrere l’Ariamacina e l’intera Sila in bici. Trascorrerò l’inverno pensando alle parole di Norman Douglas scritte all’inizio del ‘900 sulla Sila: «Se non fosse per la mancanza dell’erica con le sue caratteristiche sfumature violacee, il viaggiatore potrebbe credere di essere in Scozia. Troviamo lo stesso piacevole alternarsi di boschi e di prati, gli stessi enormi massi di gneiss e granito, la stessa esuberanza di acque vive». Come lo scrittore vorrei stupirmi di continuo della mia terra e guardarla con l’occhio dello straniero per non dimenticare mai il tesoro che noi calabresi possediamo e che di continuo dilapidiamo.

Nelle caverne della Sila il segreto di Atlantide

È una calda sera d’estate, in una spiaggia ancora selvaggia dello Jonio Calabrese. Un uomo passeggia a piedi nudi sul bagnasciuga, respirando la brezza marina a pieni polmoni. D’improvviso scorge nell’acqua cheta a non più di due metri dalla riva una pietra chiara; incuriosito entra nell’acqua e si china su di essa, la disincaglia dalle alghe che la avvolgono e si accorge che è un frammento di una pietra che doveva essere molto più grande, e che reca incisa una parte di mappa geografica di una terra ignota, con degli strani segni…

L’uomo che cammina sulla spiaggia è il prof. Neil Oldman, un archeologo americano che fa parte dell’equipaggio di una nave oceanografica statunitense attraccata poco più in là nel porto di Roccella Jonica, per delle ricerche sulla natura geologica dei fondali. Questo è lo scopo ufficiale della missione, in realtà la Black Morgan possiede 4 ecoscandagli di ultima generazione per la individuazione di reperti archeologici sottomarini, e la fondazione americana che ha finanziato la spedizione ha indirizzato le ricerche sulle rive dello Jonio Calabrese. Una passeggiata notturna sulla spiaggia si è rivelata più fruttuosa di alcuni mesi di ricerche in alto mare, Oldman non riesce a credere ai propri occhi… Ripone la pietra nella sua borsa da mare e si incammina rapidamente verso la nave. Una volta a bordo, si dirige nella sua cabina senza rivelare ai suoi compagni di spedizione ciò che ha ritrovato, perché vuole studiarlo da solo. La ricerca sui suoi testi di lingue antiche si rivela infruttuosa, i pittogrammi sulla pietra sono incisi in una lingua sconosciuta.

L’indomani mattina, Oldman decide di copiare la mappa ed i simboli su un foglio di carta e di recarsi al museo di Sibari, dove un collega di Princeton gli aveva rivelato di avere visto una stele di pietra con degli strani pittogrammi. L’emozione è fortissima, nella sesta vetrina la stele bilingue greco-pittogrammi è davanti ai suoi occhi ed uno dei segni sulla pietra è uguale ad un simbolo che lui ha sul foglio di carta, e subito lo sguardo corre al suo significato in greco: ATLAN.
Incredibile, il disegno inciso sulla pietra rappresenta una parte della mappa di Atlantide, il mitico continente scomparso descritto da Platone! Oldman torna subito alla sua nave, ma trova la sua cabina sottosopra e la pietra scomparsa… Chiede al marinaio di guardia chi sia entrato nella sua cabina, ed il giovane risponde: il prof. Johanson, il capo della spedizione scientifica. Oldman si fionda come una furia nella sala di comando e trova Johanson seduto accanto ad una giovane donna in divisa, che lo attende sorridente: caro Oldman, si accomodi, la stavamo aspettando…

Oldman – Ma come avete fatto a sapere della pietra?
Johanson – Vede professore, qui accanto a me è seduta miss Samantha Stoddard, che ufficialmente ricopre il ruolo di interprete, ma in realtà è una Remote Viewer della NSA, la agenzia nazionale per la sicurezza. Il suo compito era di controllare che i membri della spedizione non occultassero scoperte o informazioni al comando, e così lei ha letto nella sua mente tutto ciò che ha scoperto, ed ha informato i suoi superiori.
Oldman – Ma cosa ha a che fare la NSA con le nostre ricerche archeologiche?
Johanson – La NSA è interessata al trasferimento tecnologico esclusivo di conoscenze scientifiche avanzate di cui si ha notizia che le antiche civiltà del Mediterraneo possedevano. Navi a propulsione magnetica, sottomarini, fonti energetiche rinnovabili, etc. Capisce bene che chiunque riesca ad avere accesso a questo materiale scientifico, potrebbe avere in mano il futuro del pianeta.
Oldman – Ma dove avete preso queste informazioni?
Johanson – Nel V sec. a.C. uno scienziato dell’Asia minore, Pitagora di Samo, apprese da alcuni sacerdoti egiziani di una meravigliosa civiltà che possedeva tecnologie avanzatissime e si trovava ad occidente del mondo allora conosciuto e che era scomparsa improvvisamente in seguito ad uno spaventoso cataclisma: Atlantide. La spasmodica ricerca di questa civiltà portò Pitagora dall’Asia in Grecia e poi ancora più ad occidente, nella città di Crotone, dove fondò una scuola di conoscenze avanzate, in cui era vietato agli allievi divulgare l’oggetto degli studi. Pitagora trovò sulle montagne della Calabria tracce di una remota colonizzazione atlantidea, e trovò anche delle incisioni rupestri che gli consentirono numerose scoperte scientifiche. Quando il maestro di Samo morì, un suo allievo, Filolao di Crotone, disobbedì all’obbligo di segretezza e trascrisse tutto ciò che aveva appreso nella scuola in alcuni libri. Platone, il grande filosofo greco, che era in quel tempo a Siracusa al servizio del tiranno Dioniso, venne a sapere dei libri e riuscì a convincere Filolao a venderglieli per 80 talenti, una cifra stratosferica per l’epoca! Il filosofo trasse dai libri di Filolao i dialoghi del Crizia e del Timeo, che trattavano dell’isola perduta. Ma ciò che Filolao aveva dato a Platone era solo una versione diluita del racconto, dove non c’erano indicazioni geografiche precise per la localizzazione, né nozioni scientifiche, né soprattutto notizie sulla colonizzazione atlantidea nelle montagne calabresi. Questa parte d’informazioni rimase nell’ombra, e noi non l’avremmo mai conosciuta se quasi mille anni dopo, nel VI sec. d.C. un monaco calabrese, Cassiodoro non avesse ritrovato in occasione di un eremitaggio in una caverna in alta montagna, dei rotoli di pergamena di pecora, in cui erano stati trascritti i racconti pitagorici esoterici di Filolao. Il monaco informò il papa ed ottenne la concessione di fondare un monastero nel territorio di Squillace in cui custodire il segreto delle pergamene, quel monastero esiste ancora oggi…
Oldman – Lei sta dicendo che il Vaticano possiede la mappa completa dell’Atlantide?
Johanson – È una possibilità, ma i nostri Remote Viewers, e anche quelli russi e cinesi, non sono riusciti a percepire questa informazione.
Oldman – Allora cercate da queste parti tracce di quella mappa?
Johanson – Lei ha avuto, diciamo così, la fortuna di trovare un frammento di una copia in pietra di quella mappa, anche abbastanza antico, visto che non è scritto in greco…
Oldman – Qualcuno ha ritrovato altri frammenti?
Johanson – Sì, Heinrich Schliemann, nel secolo scorso, mentre scavava alla ricerca di Troia sulla collina di Hissarlik in Turchia, trovò un vaso contenente un altro frammento della mappa, riguardante una regione occidentale del continente scomparso il cui nome era Tolteacl, e la cui capitale era Tihuanaco. Schliemann tenne per sé il ritrovamento e qualche anno dopo rimase esterrefatto quando al Louvre di Parigi poté ammirare una collezione di oggetti provenienti da quella città sudamericana che recava quegli stessi misteriosi pittogrammi. La decifrazione di quelle scritture lo condusse subito nel Sud Italia, ma in un albergo di Napoli fu misteriosamente trovato morto.
Oldman – Lei ritiene che fu il Vaticano ad uccidere Schliemann?
Johanson – Erano i soli che potevano avere interesse che la mappa non venisse alla luce…
Oldman – Perché mai?
Johanson – Perché l’Atlantide concerne la fondazione della civiltà umana sulla terra, e la storia potrebbe essere affatto diversa da come la racconta la genesi biblica, e la divulgazione della verità segnerebbe la fine della religione cristiana.
Oldman – Ma se conosciamo solo questi due frammenti della mappa, non siamo in grado si sapere nulla.
Johanson – Infatti, bisogna trovare la mappa al completo con tutte le indicazioni.
Oldman – Perché mi sta mettendo al corrente di tutta questa faccenda?
Johanson – Perché lei dovrà aiutarci nella ricerca finale.
Oldman – Perché io?
Johanson – Noi sappiamo dalla lettura di antiche profezie religiose che colui che ritroverà la mappa dovrà essere un discendente della razza atlantidea.
Oldman – Ma io sono nato nel Bronx!
Johanson – Ma suo nonno emigrò negli Stati Uniti dalle montagne della Sila, dove abbiamo ritrovato numerose caverne preistoriche con scheletri antichissimi, ed il suo DNA è compatibile…
Oldman – Non è possibile…
Johanson – Mi creda non ha altra scelta.
Oldman – Cosa dovrei fare?
Johanson – Domani mattina la dottoressa Stoddard la condurrà in queste caverne perché lei possa iniziare le ricerche. Quattro ore di viaggio in auto attraverso le cime più impervie dell’altipiano, per giungere in una radura in cui ci sono delle enormi sculture zoomorfe, tra le quali un gigantesco elefante di pietra…
Oldman – È veramente incredibile, questi megaliti sono di origine atlantidea?
Stoddard – Noi riteniamo di sì, e qui intorno ci sono migliaia di caverne scavate nella roccia che erano popolate da queste antiche genti; noi le abbiamo setacciate trovando innumerevoli scheletri umani e molti resti di animali ormai estinti a riprova dell’antichità degli insediamenti, ma non abbiamo trovato nulla che ci conducesse alla mappa.
Oldman – Ho una strana sensazione, è come se non vedessi questi luoghi per la prima volta, posso camminare sapendo dove dirigermi…
Stoddard – Segua il suo istinto professore…
Oldman – Non avete trovato la mappa perché è sepolta in una caverna sotterranea sotto i megaliti, dovete scavare in quel punto…
I marinai della Black Morgan scavano diverse ore fino a che riescono a liberare dal terreno l’ingresso di una grotta di grandi dimensioni con una fitta rete di cunicoli. Oldman a questo punto entra con una torcia nella caverna e si dirige con decisione verso uno dei cunicoli, lo percorre per qualche metro e…
Oldman – Oh mio Dio, è veramente incredibile, dice cadendo in ginocchio davanti ad una parete con grandi incisioni rupestri, Atlantide è… la Pangea, il continente unico iniziale da cui derivano tutti gli altri, Atlantide è tutto il pianeta terra prima del diluvio, noi non siamo che dei sopravvissuti di una civiltà incredibilmente avanzata che governava tutto il globo, siamo solo dei poveri primitivi che stanno vivendo una seconda preistoria…
Stoddard – Richiudete, nessuno deve sapere…

Racconto di fanta-archeologia di Domenico Canino

Appena sono giunta mi sono resa conto che è sì il più piccolo Comune della Basilicata, ma San Paolo Albanese è pieno di storia e tradizioni. Il paese è un mix di tradizione lucana ma, soprattutto, di quella arbëreshë perché nacque grazie alla fuga di coloni albanesi che, all’inizio del sedicesimo secolo, scapparono dal loro Paese d’origine dominato dai turchi. Sono poco più di 270 le persone che vivono qui, ma molte giungono a San Paolo Albanese per la festa di San Rocco e la danza del falcetto. Ogni 16 agosto, mi ha raccontato chi vive qui, si celebra la festa del Santo patrono con un antico rituale che vede portare in processione la statua di San Rocco preceduta dalla “Himunea”, un piccolo trono fatto di spine di grano e decorato con fiori e con nastri colorati. Questo trono è il simbolo della cultura contadina protetta da San Rocco. Durante la processione, la comunità si raduna per celebrare la “danza del falcetto”, rito di festa che serve ad allontanare tutti i brutti presagi della natura. I mietitori si mettono davanti alla statua di San Rocco e con le loro danze danno via al corteo mentre altri fedeli, accompagnati da musica tradizionale, portano sulle spalle le “Grenje”, fasci di spighe di grano. A San Paolo la tradizione è custodita anche nel Museo della Cultura Arbëreshë dove sono esposti costumi tradizionali italoalbanesi, antichi oggetti di uso quotidiano della comunità insieme poi a canti, filmati, immagini che ci raccontano la storia di questa comunità. Particolarmente interessante è la ricostruzione dell’intero ciclo di lavorazione della ginestra che va dalla raccolta alla trasformazione in filato.

Nel cuore dell’imponente montagna, avvolto dal profumo di ginestre e a circa mille metri sul livello del mare, sorge Terranova di Pollino. Situato ai piedi della “Grande Porta del Pollino”, si possono praticare da queste parti, accompagnati dalle guide del Parco Nazionale, trekking, canyoning, attività di arrampicata e speleologia, percorsi in mountain bike, escursionismo ad alta quota e ciaspolate. Qui a Terranova di Pollino conservano ancora tante tradizioni. Su tutte c’è la suggestiva Festa della Pita o come la chiamano qui “A Pit” che si celebra in onore di Sant’Antonio.

L’ultimo sabato di maggio un albero viene tagliato e trainato dalla montagna grazie ai buoi. Arrivati alle porte del paese, l’albero viene portato a braccia dagli abitanti di Terranova. Poi il 13 giugno giorno della festa l’albero viene issato, e diventa albero della cuccagna al quale, in cima, sono attaccati salumi e formaggi che il più abile a salire può prendere come bottino di vittoria.

Ai piedi dell’albero, canti, balli e la musica della zampogna a chiave che suona la tarantella. Maestri dello strumento e associazioni culturali fanno in modo che la tradizione della zampogna, e la sua costruzione, restino vive attraverso corsi che insegnano a suonarla e, nei vicoli del borgo, si possono visitare le botteghe dei maestri artigiani che realizzano gli strumenti. Proprio per questa nobile tradizione, Terranova del Pollino, dal 2015, è “Città custode dell’arte zampognara”.

La comunità vive un altro importante momento di festa a Carnevale grazie alla tradizione della “Frassa” quando giovani in maschera, al suono di zampogna ed altri caratteristici strumenti musicali, girano casa per casa cantando e ballando, ricevendo in cambio buon cibo e vino per festeggiare insieme. Natura, musica e tradizioni: fate come me e venite a Terranova di Pollino.