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È stata una bellissima estate in un posto magico per me e la mia famiglia. Soprattutto per i miei figli che stanno sempre attaccati a questi dispositivi tecnologici e che, grazie a questi luoghi, ho potuto tenere lontano dagli schermi. Certo che però, a pensarci bene, è una piccola “contraddizione” se penso che il nostro soggiorno alle Valli Cupe è nato grazie ad una prenotazione su AirB&b. Volevamo fare una gita in Calabria e abbiamo cercato un posto bello e che fosse incastonato in uno scenario naturale splendido. È uscito fuori, dopo una breve ricerca e qualche consiglio con amici, che Sersale e le Valli Cupe fossero il posto adatto. Abbiamo trovato un bellissimo appartamento per tutti e noi quattro più il nostro cagnolino. Ci hanno chiesto meno di 30 euro al giorno! Siamo arrivati a Catanzaro, poi abbiamo seguito le indicazioni per Cropani ed eccoci arrivati a Sersale.

Il tempo di sistemarci, di capire bene il posto e via diretti alla Riserva naturale. Con i telefonini usati solo come macchina fotografica. Una guida ci ha spiegato subito che il fiore all’occhiello di questo posto sono le Gole di Razzone e di Barbaro. Pareti vertiginose ci compaiono davanti agli occhi mentre la guida aggiunge che questo è l’habitat di animali anfibi e di diverse piante. Poco più in là lo stupore continua con il Canyon. Il piccolo di casa non la smetteva più di guardarlo e di fotografarlo (almeno non ha usato il telefono per qualche giochino…). Quando la nostra visita sembrava già ricca, ecco che ci fanno vedere due “signori” da diciotto metri d’altezza l’uno. Sono il monolito Petra Aggiallu e il monolito di Misorbo. Fantastici. Tornati nel nostro b&b, con i ragazzi abbiamo rivisto tutte le foto scattate. Un momento bellissimo per noi grazie ad un luogo meraviglioso!

L’albero diventa protagonista ad Alessandria del Carretto con la Festa della Pita che si tiene, ogni anno, nell’ultima domenica di aprile nel paese dello Jonio cosentino che fa parte della comunità del Parco Nazionale del Pollino. Mi hanno spiegato che partecipare a questo evento significa essere fra i protagonisti di una delle cerimonie più caratteristiche della Calabria.

Il rituale è di quelli antichi e affascinanti. Ogni anno, fra i boschi del Pollino, viene tagliato un albero che rappresenta il cardine della festa e sarà trascinato a braccia fino in paese per celebrare il patrono Sant’Alessandro. È in quel giorno che l’albero viene poi spogliato dalla corteccia, levigato e successivamente, nella mattina del 3 maggio, agghindato con una cima composta di prodotti tipici e sollevato. Tutto questo fa in modo che si ottenga un vero e proprio albero della cuccagna, alto diversi metri, che verrà scalato dai più coraggiosi che potranno prendere ciò che vorranno una volta raggiunta la cima. Il rito del “trascinamento” dell’albero viene accompagnato da musica e festa e, se un tempo era un rituale esclusivamente maschile, oggi partecipano al traino molte donne che vogliono essere protagoniste in toto della cerimonia. La festa di Alessandria del Carretto cementa ancor di più, inoltre, la salda amicizia con la comunità del vicino comune di Terranova del Pollino, in provincia di Potenza, che dona il grande albero.

 

 

Dante Alighieri, nella Divina Commedia – Canto XII del Paradiso – lo definì “lo calavrese di spirito profetico dotato”.

Gioacchino da Fiore era questo, ma anche tanto altro. Nato a Celico intorno al 1130, terminati gli studi a Cosenza, lavorò nella città bruzia per qualche anno, per poi trasferirsi a Palermo, prima alla Corte Normanna e, successivamente, presso il Cancelliere di Palermo, l’Arcivescovo Stefano di Perche. I suoi contrasti con quest’ultimo, lo portarono in Terrasanta, dove visitò i luoghi della nascita e della predicazione di Cristo. Diventò frate cistercense nel monastero di Santa Maria di Corazzo e in seguito, nel 1177, fu nominato abate. Restò abate di Corazzo per una decina di anni, in cui compilò molte delle sue opere teologiche. Gioacchino viaggiava molto per le sue ricerche, restando per lunghissimi periodi lontano dal monastero, così, nel 1188, il papa lo sollevò dall’incarico di abate e il centro fu annesso all’abbazia di Fossanova. Dopo un ritiro di meditazione sulla Sila, in una località a pochi chilometri da San Giovanni in Fiore, con alcuni seguaci costituì l’ordine, poi detto florense, approvato con una bolla del 1196 da Celestino III.

Proprio sulla vita del monaco e intellettuale cistercense, tra i personaggi più studiati in tutto il mondo, è stato pensato un percorso spirituale e naturale per turisti e fedeli, che unisce il mar Tirreno con il Parco Naturale della Sila. Un affascinante “Cammino di Santiago di Compostela” in versione calabrese, che parte da Lamezia Terme, nel catanzarese e, seguendo i passi di Gioacchino, raggiunge San Giovanni in Fiore in provincia di Cosenza. Un viaggio che miscela i magnifici luoghi che si pregiarono della presenza dell’abate con i gustosi e inimitabili prodotti della gastronomia calabrese.

Si parte dalla chiesa di Santa Maria Verdana di Nicastro, il cui interno, in contrasto con la semplicità dell’esterno, lascia a bocca aperta i visitatori, con il dipinto della Madonna di Costantinopoli – raffigurata fra Santa Domenica e Sant’Eligio – ad attirare maggiormente l’attenzione. Secondo la leggenda, la chiesa fu edificata per volere della stessa Madonna che apparve in sogno a una figlia di Federico II di Svevia.

Da Nicastro si va poi in direzione del borgo di Carlopoli, dove, a contatto con le caratteristiche viuzze e le piazze del piccolo borgo montano della Sila piccola, si ha subito la sensazione di essere stati sbalzati indietro nel tempo. È proprio a Carlopoli che si possono trovare i ruderi dell’Abbazia di Corazzo, talmente affascinanti da lasciare a bocca aperta ogni genere di visitatore. Il monastero benedettino, come già anticipato, fu una tappa fondamentale della vita di Gioacchino da Fiore. L’influsso del monaco celichese permise a Corazzo di diventare un centro ricco e fiorente, promotore di cultura e spiritualità. Successivamente, nel XIV secolo, guerre e carestie segnarono una battuta d’arresto per l’accrescimento delle risorse dell’abbazia, fino a quando nel secolo successivo Corazzo, come tutti i monasteri, si trovò a perdere la maggior parte delle ricchezze a causa dell’introduzione del sistema delle cosiddette “commende” in favore dei potentati locali. Alcune fonti ci raccontano che anche il filosofo cosentino Bernardino Telesio fu affascinato dalla bellezza di quei luoghi e attirato dalla ricchezza della biblioteca dell’abbazia tanto che vi dimorò diversi anni, lasciandosi ispirare dalla magica aria che si respira ancora oggi.

Abbandonato Corazzo, il percorso prosegue tra la natura e attraversando diversi centri silani, fino a Bocca di Piazza frazione del comune di Parenti. Si giunge poi a Lorica, una delle località turistiche più conosciute della Sila Grande. Il lago Arvo, che offre un panorama mozzafiato, è incastonato tra Monte Botte Donato (la cima più elevata dell’altopiano della Sila con i suoi 1928 metri) e il Montenero.

L’ultima tappa porta a San Giovanni in Fiore, il paese più importante dell’intera Sila. Qui sorge l’Abbazia Florense, edificata dopo la morte di Gioacchino. Si tratta di uno degli edifici più imponenti e importanti dell’intera regione. Costruito a partire dal 1215, dopo che un incendio distrusse la prima costruzione voluta dal monaco in località “Iure Vetere”, è situato nel centro storico del paese. La facciata conserva lo stile semplice e povero di decorazioni, a eccezione del portone. L’ingresso è più elevato rispetto all’unica navata. La facciata principale è sprovvista di rosone che è spostato nella facciata opposta. Quello centrale è circondato da altri tre più piccoli disposti a formare un triangolo. Questa composizione potrebbe essere un chiaro richiamo alla Santissima Trinità. L’interno austero e spoglio è espressione dell’influenza cistercense. Nella cripta, in corrispondenza dell’altare, si trova un’urna che contiene le spoglie del monaco. Nel locale a sinistra dell’altare, si possono ammirare le tavole del “Liber Figurarum”.

Dunque, un itinerario emozionante, che unisce cultura e religione, lasciando sorpresi persino i turisti più diffidenti che tendono a raggiungere la Calabria solo per rinfrescarsi con un tuffo al mare.

Francesco Veltri

Da un paio di anni a questa parte, faccio dei piccoli tour per i borghi della Calabria. E rimango esterrefatta quando scopro luoghi e culture di cui non conoscevo l’esistenza. Mi sembra di essere un Colombo che scopre nuove terre, anche se non circumnavigo il mondo. Ed è qui la meraviglia, trovare a pochi passi dalle città tradizioni che si trapassano da oltre cinquecento anni.

Mi riferisco, in questo caso, al rito delle Vallje di Frascineto, una festa arbëreshë, che si celebra ogni anno, il martedì dopo Pasqua. È uno dei momenti di più grande orgoglio per questa comunità così attaccata alle proprie radici.

Frascineto si colora con musiche folcloristiche e abiti variopinti; con canti e balli popolari dove è impossibile restare fermi solo a guardare.

Questo rito è nato per ricordare la vittoria di Skanderbeg contro gli invasori turchi e per decantare i valori che la comunità arbëreshë ha appreso da questa impresa: la libertà; mantenere l’impegno della promessa fatta e l’amicizia nel rispettarla. Donne e uomini vestiti con gli abiti del tempo iniziano una danza, tenendosi per mano quasi a formare una muraglia che si muove a serpente sino ad arrivare alla piazza principale mentre vengono cantate composizioni epiche in lingua albanese.

Successivamente, venni poi a sapere che quei balli e quei canti contenevano il racconto dei culti greci come il mito di Arianna nel labirinto di Minosse; i valori fondamentali della cultura arbëreshë, soprattutto l’importanza della parola data che va mantenuta anche dopo la morte. In un canto il protagonista è Costantino il Grande, che risorge pur di mantenere la promessa fatta alla madre di riportare la sorella a casa.

Ma la cosa più particolare sono i “tintori”. Sono uomini vestiti di nero che si immergono nella folla e, con la fuliggine, dipingono il viso di coloro che ritengono essere i “nemici latini”. Chi viene dipinto deve espiare la colpa offrendo da bere. È capitato a me ed ai miei amici ed è stato molto divertente.

Il Parco Nazionale della Sila ha un obiettivo ambizioso: diventare Patrimonio dell’Umanità dell’Unesco. Le caratteristiche ci sono tutte del resto. Basta solo pensare allo splendore delle risorse naturali che compongono la Sila per capire che questo importantissimo riconoscimento delle Nazioni Unite si addice alla montagna calabrese. Su questo percorso molto sta facendo tutta la dirigenza del Parco Nazionale della Sila con in testa il commissario straordinario dell’ente Sonia Ferrari.

«Arriveranno gli esperti dell’Unesco – ci racconta – che faranno le verifiche sul campo ai nostri beni naturalistici e alle loro caratteristiche. Parleranno con chi vive il Parco e la Sila ogni giorno per capirne l’importanza».

Spiega ancora la Ferrari che: «Se dovesse arrivare il riconoscimento Unesco, questo porterà molti risvolti positivi su tutto il nostro territorio. Basti pensare che già la sola candidatura ha avuto dei grandi meriti mettendo insieme tutti gli interessi e tutti i protagonisti del territorio silano. Tutti i soggetti coinvolti credono in questa enorme possibilità. Noi ci auguriamo di riuscire nonostante le difficoltà del caso, nonostante la concorrenza che c’è, noi ci crediamo».

A sostenere la candidatura del Parco Nazionale della Sila per entrare nella “World heritage list”, la lista di luoghi o beni culturali considerati Patrimonio dell’Umanità, esiste un progetto che si chiama “Sila Storytelling” messo in atto da Officine delle Idee. Grazie a Sila Storytelling, infatti, i visitatori sono protagonisti nel racconto della loro visita nel Parco descrivendo le proprie esperienze e le emozioni provate durante un soggiorno all’interno dell’area protetta spiegando cosa li ha colpiti e quello che magari li ha spinti a tornare. Attraverso il sito dedicato al progetto, alla mail, ai vari social network è possibile lasciar traccia del proprio passaggio in questi luoghi bellissimi.

«Il progetto di Sila Storytelling – spiega Sonia Ferrari – è molto importante per il nostro turismo esperienziale. Diventa fondamentale proprio perché è uno strumento di comunicazione nuovo per raccontare il nostro Parco e lo fa attraverso chi lo visita».

Il sito www.silastorytelling.it farà da centro di raccolta delle esperienze, da “libro” del XXI secolo, e tutti i racconti, i resoconti e le storie inviate resteranno nell’archivio del Parco Nazionale della Sila.

Francesco Cangemi

Se la definiamo “capitale del Pollino” non sbagliamo. La mia esperienza nel Parco la devo tutta a Castrovillari. È da qui che sono partito per avventurarmi fra la natura e le bellezze del Parco Nazionale del Pollino. E a dirla tutta mi hanno preso per il naso e per la gola. Infatti, sono venuto a provare i famosi spaghetti al fuoco di bacco realizzati con un sugo mescolato insieme al vino rosso. A seconda dei propri gusti si può aggiungere del pepe o olive verdi oppure nere. Io ho potuto apprezzare una variante con le olive nere mentre quel fumo prelibato mi finiva negli occhi nello stesso istante in cui davanti avevo il Castello Aragonese. Alle mie spalle il Protoconvento e tutto intorno le montagne del Pollino calabrese. Dietro quelle vette, c’è la Basilicata. Nel mio pranzo non sono mancati poi i peperoni cruschi, una specialità tipica dei “pollinari”. Li cucinano, infatti, proprio nelle zone intorno alle pendici del monte Pollino. È ottimo il sapore di questi peperoni lasciati essiccare e poi fritti nell’olio. Una volta alzati da tavola perché non andare a visitare il primo convento dei francescani che la Calabria ha avuto? E allora eccoci dentro al Protoconvento per ammirare i suoi archi, il suo cortile e tutte le stanze che trovano le proprie radici nel 1200. Qui dentro c’è anche il Teatro Sybaris che, insieme ad altri spazi della struttura, ospita una delle più importanti rassegne teatrali d’Italia: Primavera dei teatri. Ma la vocazione nazionale di Castrovillari non si ferma certo qui. Anzi va addirittura fuori dai confini italiani con il Festival Internazionale del Folklore e con il suo Carnevale. È qualcosa di bellissimo vedere sfilare carri e maschere con le montagne sullo sfondo. Anziché avere il mare come a Venezia, a Castrovillari si festeggia nell’abbraccio del Pollino. Per poter visitare il Parco con una guida ci si può recare presso la sede secondaria del Parco che è proprio qui, nel centro della città, a Palazzo Gallo. Basta entrare, informarsi e partire, zaino in spalla, insieme a chi la montagna la conosce come le sue tasche. Arrivati sulle cime del Pollino guardare una città così viva è davvero, davvero molto bello.

Un’estensione di oltre settantamila ettari, tre province che ricadono nel suo territorio, altrettante macroaree, cinque laghi, vette altissime, una biodiversità unica nel suo genere. Benvenuti in Sila, la grande montagna calabrese che tocca i territori di Cosenza, Catanzaro e Crotone e che vuole un riconoscimento che moralmente ha già: essere considerata Patrimonio dell’Umanità. Le caratteristiche ci sono tutte per ottenere il benestare dall’Unesco e, proprio in questi mesi, i responsabili della World Heritage List la stanno percorrendo in lungo e in largo.

La natura incontaminata è una delle caratteristiche predominanti della Sila, una natura che è tutelata dal Parco Nazionale della Sila istituito nel 2002 e comprendente anche i territori già facenti parte dello “storico” Parco Nazionale della Calabria istituito già nel 1968.

Un parco che offre ai suoi tanti visitatori bellezze di ogni genere: dalla flora alla fauna, dalle bellezze paesaggistiche alle squisitezze gastronomiche e poi tanto divertimento con la possibilità di praticare diversi sport a seconda della diversa stagionalità: sci di fondo e discesa, trekking, escursioni a cavallo, torrentismo, percorsi in mountain bike e tanto altro.

E arrivare in Sila è molto semplice. È aiutata, infatti, da una posizione che la racchiude fra gli aeroporti di Lamezia Terme e Crotone; è attraversata da una statale che la mette al centro fra il Mar Tirreno del cosentino e il Mar Jonio del crotonese e che, a sua volta, è ben raggiungibile dall’autostrada A2 Salerno-Reggio Calabria e si può usufruire dei bus che dai tre capoluoghi di provincia arrivano alla montagna. C’è la Sila Grande il cui territorio ricade prevalentemente nel cosentino, poi c’è la Sila Piccola che si caratterizza per il suo sguardo verso il catanzarese e dove ci sono alcuni dei villaggi turistici più conosciuti come Villaggio Mancuso mentre la Sila Greca è quella che si colloca verso il Mar Jonio e che osserva la Piana di Sibari e dove la storia ha portato le colonie dall’Albania.

Proprio la storia, la cultura, la spiritualità e la filosofia caratterizzano quella che viene definita la “Capitale della Sila” San Giovanni in Fiore, il più vasto e antico centro della montagna. È qui che l’abate Gioacchino da Fiore fondò il suo monastero e la sua Congregazione.

Se San Giovanni in Fiore può essere considerata la capitale della montagna, se il pino laricio è una delle peculiarità naturali che contraddistinguono la Sila, l’animale-simbolo è il lupo. Il suo mantello ha un colore che cambia a seconda dell’età, delle stagioni e del luogo in cui vive. Fra le montagne della Sila, il pelo del lupo ha un colore bruno e fulvo con sfumature scure ed è simile a quello di un cane pastore tedesco, ma la differenza sta nella testa. Qui il lupo assume un simbolo di sacralità, ne è vietata la caccia ed è questo che ha favorito il ripopolamento di una specie che stava rischiando l’estinzione.

Bellezza, parola dominante in Sila. Basti pensare ai cinque laghi artificiali che la caratterizzano. Tre di questi, il lago Cecita, l’Arvo e l’Ampollino, sono quelli più noti ai visitatori mentre più caratteristici sono quello di Ariamacina e il lago del Passante.

La Sila non è, però, soltanto bellezza paesaggistica ma anche bontà di sapori. La patata della Sila è infatti, prodotto con marchio IGP e sull’altopiano può essere acquistata nelle aziende, nei negozi di prodotti tipici o dai contadini che le vendono nelle località turistiche. La Sila è anche il regno dei funghi che vengono celebrati con tanti eventi e sagre ad hoc, dei latticini e dei formaggi con il caciocavallo silano in testa. In questi territori è inoltre possibile mangiare le gustose carni degli allevamenti di bovini e suini e in particolare del suino nero di Calabria.

Tutto questo non basta a descrivere la bellezza e la ricchezza della Sila. Vi toccherà raggiungere e visitare uno dei luoghi più belli del Mediterraneo e, particolare non trascurabile, economicamente fra i più accessibili.

Mormanno rappresenta uno dei paesi simbolo del Parco Nazionale del Pollino. È in provincia di Cosenza, ma è una delle porte di congiunzione con la Basilicata e con la montagna di quel versante, circondato dalle vette dei monti Palanuda, Velatro e Cerviero. Quattro sono, invece, i colli sui quali si estende la comunità mormannese: La Costa, San Michele, Casalicchio e la Torretta. Arrivare a Mormanno significa fare un viaggio fra natura, storia, arte e gusto. Fu proprio qui che, nel 1866, vi furono scontri molto accesi dopo l’Unità d’Italia: c’era, infatti, l’intento della popolazione di restaurare il regime borbonico che tanti preferivano alla neonata nazione. Ma è proprio qui che sorge uno dei monumenti regionali più importanti che ricorda i soldati uccisi nella Prima guerra mondiale: il Faro Votivo ai caduti della Calabria che è un vero e proprio simbolo di riconoscimento per il paese.

Arrivata a Mormanno, ho potuto vedere l’imponente Duomo di Santa Maria del Colle che, all’interno, custodisce tre portali con gli stemmi delle confraternite del paese: quella del Santissimo Sacramento, quella degli Agonizzanti e quella delle Anime del Purgatorio. Qui è tutto un fiorire di architetture religiose, basti pensare al Santuario della Madonna della Catena o alla Chiesa della Madonna del Suffragio e a tutte le piccole cappelle edificate in tutta Mormanno.

C’è, però, un altro “monumento” importante che caratterizza il paese e che viene realizzato nelle case di tantissimi mormannesi. Non è fatto da pietra e cemento, bensì di pasta frolla. È il bocconotto (o bucconotto), dolce tipico di queste latitudini. Già il nome invita a mangiarlo in un sol boccone per la sua bontà e per le sue ridotte dimensioni che, in più, gli permettono di essere conservato a lungo. La ricetta tradizionale lo vuole farcito prevalentemente con la mostarda e, in secondo ordine, con le marmellate. Certo, oggi si può gustare anche con la crema al cioccolato, ma con quella buona pasta frolla che lo compone poco importa cosa ci sia dentro perché tanto sarà sempre una gioia per il palato. Nelle case di Mormanno è il dolce della festa, anche se la “produzione” raggiunge picchi maggiori durante le feste natalizie proprio perché è simbolo di accoglienza e tradizione. È famiglia. E se si vuole appartenere alla famiglia di Mormanno non si può non dargli un morso dopo aver visitato il paese e la sua montagna in lungo e in largo.

 

 

 

 

Se dovessi riassumere con un solo sapore l’intero territorio della Sila, questo si potrebbe fare con la patata. Buona e gustosa come poche, la patata silana è un prodotto di Indicazione Geografica Protetta (più nota con il termine IGP), e il suo sapore è un unicum grazie al tipo di terreni in cui cresce e grazie al clima che consente una maturazione costante e lenta. L’irrigazione per le patate della Sila viene fatta con acqua di sorgente ed è un tipo di tecnica che non può essere riprodotta facilmente in altri luoghi.

La nascita in alta montagna ha reso la buccia della patata più protettiva e con una maggiore capacità di resistenza ai batteri grazie agli sbalzi di temperatura. Proprio una buccia così resistente e la sua polpa compatta la rendono ottima per la frittura. In Sila possiamo assistere a tante sagre ed eventi che ne celebrano il sapore e che richiama molti turisti curiosi di assaggiare la patata nel suo luogo d’origine. Il territorio della Sila è pieno di ricette squisite ma il piatto per eccellenza è quello delle “patate mpacchiuse”. Proprio queste ultime, che in italiano potremmo chiamare “patate attaccate” anche se la traduzione non rende come il nome dialettale, vengono preparate con poco olio dopo che sono state tagliate a rondelle. Che siano d’accompagnamento carne di maiale o vitello o che vengano mangiate con cipolle o funghi, le “patate mpacchiuse” sono il patrimonio gastronomico universale della grande montagna silana.

Un borgo medievale nella bellezza naturale del Parco Nazionale del Pollino. Siamo a Morano Calabro che, non a caso, viene considerato uno dei centri più importanti della parte calabrese della grande montagna. A certificare che sia un posto consigliato come meta turistica è arrivata, nel 2003, la Bandiera arancione che lo ha fatto entrare fra “I borghi più belli d’Italia” scelti dal Touring Club Italiano. Il motivo è semplice ed è da ricercare nel suo patrimonio e artistico. In mezzo fra Basilicata e Calabria, Morano deve molto della sua fortuna, in epoca antica, alla posizione che lo colloca nell’alta valle del fiume Coscile. Questa conformazione ne ha fatto una sorta di roccaforte amata dai signori dei casati calabresi, soprattutto dai Sanseverino di Bisignano.

Nella Morano di oggi i luoghi da visitare sono tanti. Il percorso può iniziare dalla Chiesa arcipretale dei Santi Pietro e Paolo la cui costruzione risale all’anno Mille. All’esterno il nostro sguardo è catturato dal campanile quadrangolare, all’interno dall’affresco che raffigura la Vergine delle Grazie. Sempre dentro alla chiesa possiamo vedere un sarcofago appartenente alla famiglia dei Fasanella e la Croce processionale in argento donata da Antonello de Saxonia. All’interno della chiesa si possono anche osservare quattro statue in marmo di Carrara, raffiguranti santi, realizzate dal padre di Gian Lorenzo Bernini, Pietro. Usciti da qui, il nostro viaggio artistico-religioso a Morano può proseguire verso la Collegiata di Santa Maria Maddalena, la chiesa di San Bernardino da Siena, il monastero di Colloreto, il Convento dei Cappuccini e le chiese di San Nicola e del Carmine.

Salendo per il borgo medievale, arriviamo al castello normanno-svevo. Qui restano i segni del tempo e delle epoche che lo hanno attraversato. La sua origine risale all’epoca romana, ma una nuova caratterizzazione venne data alla struttura dall’impero normanno-svevo. Arrivarono poi gli aragonesi che fecero diventare il castello, la prigione della Signora di Morano, Benvenuta Fasanella, moglie del potente feudatario Tancredi. Spostandoci dal cuore antico di Morano, possiamo visitare la Villa Comunale, polmone verde che ospita al suo interno: faggi, pini, olmi, roseti e bellissime siepi dalle svariate forme.