A Ferrandina sono molto orgogliosi del loro titolo di città acquisito nel 2011. Fossi in loro sarei orgoglioso anche delle loro architetture religiose. Nel mio viaggio a Matera, come tanti in questo 2019 del resto, ho apprezzato questa città lucana per le sue chiese e per il convento dei Cappuccini. Il mio viaggio a Ferrandina è iniziato con una visita alla chiesa della Madonna del Carmine che si trova nel rione Purgatorio e che presenta un portale cinquecentesco ad arco bugnato. La chiesa fu costruita dai monaci domenicani venuti da qui da Uggiano. Proprio i monaci andarono via dalla contrada per costruire San Domenico visto che la chiesa del Carmine subì diversi danni. Ci pensarono i monaci di San Pio dei Morti a ricostruirla con tutti i crismi e divenne così nota come chiesa del Purgatorio. All’interno ho potuto vede una effige di San Vincenzo Ferrei, una Trinità e un organo del 1700 dove troneggia il simbolo della congrega di San Pio dei morti. Poi il mio viaggio è proseguito verso la chiesa madre di Santa Maria della Croce. Venne costruita poco prima del 1500 e i suoi lavori hanno subito diverse trasformazioni nel corso del tempo. Quello che colpisce subito i visitatori sono i tre portali cinquecenteschi e le tre cupole bizantineggianti. Dentro c’è una statua in legno della Madonna con Bambino che risale al 1530 e due statue dorate raffiguranti Ferrante d’Aragona e sua moglie, la regina Isabella di Chiaromonte. Nella chiesa c’è un’altra statua in legno dorato che raffigura un’aquila bicipite che è il simbolo di Ferrandina. La visita si conclude con il convento di Santa Chiara, datato 1688. La torre della sua struttura domina tutta la città. Una volta entrati dentro possiamo vedere il ipinto dell’Immacolata di Solimena realizzato nel 1730. Possiamo vedere anche la Crocifissione realizzata da Ferro. Ultima visita al Museo della civiltà contadina per capire meglio le tradizione del luogo e via in macchina per tornare a Matera.
“Sveglia! Sveglia!” Cosa l’hai preso a fare un B&B con giardino per me se resti a stiracchiarti nel letto col sole alto?
“Dai!” Ho le mie esigenze, io.
Bravo.
Metti un giubbotto su quelle occhiaie e portami fuori.
Tu fai colazione che io mi occupo dei gattini che spadroneggiano qui in giro.
‘Sta scema, che ti sei portato dietro non fa altro che chiamarmi “puzzone brutto” mentre mi torce le orecchie, lasciamola alla sua pigrizia. Dice che non si affezionerà mai a me. Seee. Un cane corso del mio lignaggio! Magari il contrario…
Appena arrivati ieri sera, ci ha subito catapultato nei sassi by night a sottolineare (è il suo lavoro!) come la luce artificiale gioca con il lavoro degli scalpellini.
Pensa tu!
A respirare i refoli serali che arrivano dall’imo buio di Matera.
Qui solo io ho il naso giusto per sentire vecchi odori di animali quasi estinti con le orecchie troppo lunghe.
E poi a tirar tardi in quel localino, costretto sotto il tavolo ad aspettare le briciole che, buon cuore degli amici arrivati dal Nord, mi si ammannivano!
E tu? Incantato a scattare foto… I raggi dei rosoni riprodotti sulle pareti, diventano aureola per una Madonna laica col bicchiere di Aglianico del Vulture in mano, a certificarne la “santità”.
Tutto materiale da sfoggiare sui social. La sera leoni e al mattino cogl…
Eccola che è pronta. Si ritorna in centro!
Com’è diversa la città con la luce del giorno! Non mi fidassi del mio olfatto, mi sarei già perso come voi due. Non c’è un inizio e non c’è una fine in questi sassi.
Spegnete Google Maps e seguite l’istinto come me. Lo spazio è circolare qui. Anzi a spirale. Scendere e salire, orario e antiorario.
Un susseguirsi di dejà vu con sfumature ogni volta diverse, di cunicoli angusti e ampi spazi.
Di ombre spesse e riflessi abbacinanti.
“Ehi architetto!” Perchè accarezzi la grana delle pietre con quella faccia stralunata?
Lì c’è il salame pezzente col pane di Matera! Non ti arriva la nuance?
Parliamo dopo di capitelli, contrafforti e prese d’aria please.
“Sù sù, senza affannare”. Guardate un cucciolo baldanzoso come arriva per primo alla Madonna dell’Idris, seminando il panico fra i bambini e omaggiandoli di pet therapy. Rilassatevi per una volta, che non ci sono macchine in giro e vi sganciano il guinzaglio, pure a voi, piccoletti!
Occhio al dirupo però! C’è chi, sull’orlo del burrone, disegna, chi scrive poesie e chi si giura eterno amore. Troppo pericoloso! Via di qui destinazione S. Pietro Caveoso. Io in Chiesa non sono ammesso. Non sono battezzato.
Invece a casa Noah, sì che mi fanno entrare. La FAI non discrimina. Mi sono finto interessato alla proiezione sulle pareti, di tutta la storia di Matera, ma qui lo dico e qui lo nego, ero più attratto dal vecchio camino con i suoi ricordi fuligginosi di cosciotti arrostiti.
A proposito! Non è ora di pappa, no? Niente.
O.k. Entriamo qui? Ma siamo tornati indietro di un secolo! In questo sasso ci viveva tutta la famiglia? Anche gli animali? Gli arredi, gli attrezzi, le provviste, la stalla, il pollaio. E il cane? Non mi piace. Non era previsto proprio, il cane! Andiamo. Voglio le mie crocchette.
Finalmente!
Era ora!
Buonissime.
“Voi che mangiate?”
Che facce estasiate! Ehi pronto? “Come si chiamano?”
Onomatopeico? Ricordo che sono un cane e cucciolo per giunta.
Cru-sco. Cru-sco. Come i miei croccantini! Volevo dire!
Chiudo un po’ gli occhi. “Come? E’ già ora di andare?” Ci sono ancora un’infinità di cose da scoprire.
“Restiamo ancora un giorno dai. Ehi tu? Guarda gli occhioni da cucciolo”.
“Io ci vivrei sempre a Matera”.
Non mi chiedete perché ma so da sempre che Craco, a qualche chilometro da Matera, è un set cinematografico per eccellenza. Come lo so? Perché quando ero ragazzino, guardavo una serie tv italiana che si chiamava “Classe di ferro” dove recitavano il figlio di Ciccio Ingrassia e Rocco Papaleo ancora sconosciuto. Non sapevo fosse in Basilicata però. E, andando a Matera per scoprirla come Capitale europea della Cultura, ho visto che a qualche chilometro di distanza c’era Craco. E io ci sono andato. Il posto vive di 700 anime che sembrerebbero poche ma che in realtà sono fondamentali per queste atmosfere. I motivi di queste fascinazioni ambientali sono due: il primo è dovuto ai calanchi che dominano questo territorio che lo rendono un set perfetto; l’altro per la frana del 1963. A causa di questa gli abitanti iniziarono a spostarsi a valle e il paese restò spopolato. I film girati qui sono talmente tanti che me li sono dovuti andati a cercare su Wikipedia. E ho scoperto che qui hanno girato: La lupa di Alberto Lattuada; Il tempo dell’inizio di Luigi Di Gianni; King David di Bruce Beresford; Oddio, ci siamo persi il papa di Robert M. Young; Il sole anche di notte dei Fratelli Taviani; Ninfa plebea di Lina Wertmüller; Terra bruciata di Fabio Segatori; Nativity, di Catherine Hardwicke; Quantum of Solace di Marc Forster; Basilicata coast to coast di Rocco Papaleo (che questi luoghi li conosce benissimo); Un medico di campagna di Luigi Di Gianni e Montedoro di Antonello Faretta. Tanti. Ma qui non c’è solo un set da film, si possono anche esplorare le contrade. Il Canzoniere, Sant’Eligio e San Lorenzo. E ovunque si possono vedere e apprezzare gli ulivi maestosi.
Frequento Matera da sempre. L’ho vista sola e fredda d’inverno e rovente e affollata d’estate. Ci vado 4/5 volte all’anno o più. Ci vado perché sento una appartenenza, i luoghi/non luoghi di Matera li ho sempre sentiti miei. Quando arrivo e guardo la Gravina sento lo stesso brivido che si ha nel mordere un limone. Andavo ogni estate a visitare le mostre nelle grotte rupestri, ogni anno uno scultore internazionale che alla fine lasciava un’opera alla città, al museo della scultura (unico in Italia).
Lì ho mangiato e scoperto i ceci neri e un cibo d’altri tempi (comfort food, come si chiama oggi). Ho visto locali nascere, ho parlato con giovani pronti ad aprire nuove attività, ho visto hotel sempre più accoglienti. Ero nella piazza di San Pietro caveoso quando si festeggiò la candidatura come città della cultura. Carnevali, Natali, Pasque. Negli ultimi due anni è sempre più un cambiamento. Con egoismo dico anche che mi dispiace la confusione che aumenta sempre di più, perché Matera la vivo come un silenzioso rifugio.
Preso dalla curiosità di visitare non solo Matera per gli eventi 2019, ho deciso di informarmi un po’ su ciò che c’è nella sua provincia. Cartina digitale alla mano, ricerche internet e presa qualche informazione proprio durante il mio soggiorno a Matera, ho trovato la meta nuova da visitare: Cirigliano. Ma che cosa ha di così speciale da attirare la mia attenzione? È presto detto: è il Comune più piccolo dell’intera provincia, il terzo di tutta la regione Basilicata. Mi sono detta che un territorio con questa caratteristica non poteva non essere visitato. E qui ho fatto la bella scoperta dei mulini. Sì, ci sono ben tre mulini attivi in questo piccolo paese. E si possono anche visitare se chiediamo, con cortesia e senza invadere, ai loro proprietari. C’è il mulino di Santa Maria Vignola costruito sul finire dell’Ottocento che è ad acqua così come lo è quello di Don Carmine e quello della frazione di Rupicelli che sono riuscita a vedere grazie ad una famiglia della contrada che mi ha permesso di osservarlo dopo avergli spiegato che vengo da Roma e che avevo intrapreso questo viaggio perché avevo grande curiosità. Proprio loro mi hanno spiegato che Cirigliano sarà anche piccolo ma conserva altre risorse oltre i mulini. Quali? Le pietre. Pare sia infatti famosa, io lo ignoravo, la pietra di Cirigliano con cui vengono realizzati molti lavori artigianali e anche strutturali come, ad esempio, la cappella di Santa Lucia che sta in bella vista nella piazza del paese. A proposito di luoghi di culto, ho concluso la mia visita nella grotta dedicata alla Madonna che, raccontano, un brigante pentito ha scavato nella roccia per devozione. Un paese che è uno scrigno questo Cirigliano.
Arrivo a Matera nell’Aprile del 2018.
L’occasione era il matrimonio di alcuni amici che, pur essendo entrambi calabresi, avevano deciso di sposarsi lì, rendendo l’evento una due giorni di relax, passeggiate tra i Sassi e degustazioni di prodotti tipici. Il motivo che li aveva spinti a celebrare lì il proprio matrimonio è facilmente intuibile: l’atmosfera che si respira scendendo tra i Sassi o ammirandone dall’alto la geometria, è qualcosa di indimenticabile.
Appena arrivati decidiamo di visitare subito il centro storico.
Da lì a poco la città sarebbe diventata Capitale della cultura per il 2019 e questo rendeva il paesaggio tutt’intorno una sorta di enorme cantiere a cielo aperto. I preparativi mostravano quel fermento tipico di chi si trova davanti a un’occasione che non deve assolutamente sprecare.
Ricordo che già allora, tra faticose salite e ripide discese, la riflessione su questo aspetto mi aveva portata a operare un confronto con la mia regione, la Calabria, e a interrogarmi su come alcuni elementi unici del sud e, per questo, imparagonabili a quelli di altre regioni, potessero rivelarsi, a seconda delle politiche adottate, un veleno o, al contrario, una preziosa arma per la crescita di un territorio.
Matera era lì davanti ai miei occhi in tutta la sua maestosità e con tutti i suoi difetti che venivano valorizzati o raddrizzati in fretta, allo scopo di permettere ai suoi abitanti e ai turisti che la attraversavano, e che sarebbero arrivati ancora più copiosi, di poterla vivere al meglio. Ci sarebbe stata un’occasione simile anche per la mia regione? E, soprattutto, avremmo saputo sfruttarla? Domande che continuarono a girarmi in testa ma che in quel momento vennero arginate dalla piacevolezza della vacanza.
Il matrimonio, che si teneva di pomeriggio in un bellissimo giardino fiorito, all’interno di un hotel alle porte della città, fu molto suggestivo. Il cibo delizioso e abbondante, strizzava l’occhio alla tradizione locale.
Io me ne tornavo a casa il giorno dopo con impresse negli occhi le immagini rocciose delle casette incastonate nei Sassi, delle bellissime e numerose chiese, riconoscendomi in tante delle dinamiche e dei meccanismi di quella città e con la valigia stracolma di pane e peperoni cruschi.
Sono sempre stata un’appassionata di occultismo. Qualsiasi posto io visiti, voglio sapere se ci sono leggende legati ai luoghi. Mi è capitato anche nella mia visita a Matera come Capitale europea della cultura 2019. Ma la storia che ho deciso di raccontare qui nel progetto MateraStorytelling non riguarda la città capoluogo bensì un paese della provincia. Si tratta di Colobraro che, come la tragedia shakesperiana di Amleto, pare non si possa nominare perché causa disgrazie. Chiariamoci: a me piace conoscere queste storie “nere” ma non ci credo. Dopo avermi raccontato di Colobraro, ho sentito subito nominarlo non per nome ma come “Quel paese”. Non si può proprio nominare. Allora, incuriositami ancora di più, ho chiesto spiegazioni. Me le hanno date sul posto. Siamo prima della Seconda guerra mondiale. I venti di ciò che di terribile sta per arrivare giungono, ancora, come una eco lontana. Un importante signorotto del paese, dicono un avvocato molto noto ma non mi riferiscono il cognome, disse che se non stava dicendo il vero su un determinato fatto potesse cadergli un lampadario alla fine della frase. E così fu. Il lampadario, secondo molti qui a Colobraro, cadde. Si ruppe. Davanti agli occhi sbigottiti di chi aveva ascoltato l’avvocato. Da qui la cattiva nomea per questo povero paese. Alcuni invece dicono che questo brutto nome sia frutto di una fotografia di Franco Pinna che immortalò una magara del posto negli anni Cinquanta. Proprio Pinna faceva parte di un gruppo di studiosi che comprendeva l’antropologo De Martino che raccontava di aver assistito ad episodi di sfortuna. Non lo so. A me mi sembrano tutti molto cortesi ed educati. Nulla che valga la nomea di “paese senza nome”. Non è giusto. Non lo meritano. Anche perché ci sono tante cose da vedere come i resti del castello o il convento francescano o la chiesa di San Nicola. Insomma, ecco il mio appello: visitate Matera, quest’anno, ma visitate anche Colobraro.
Ti ho incontrata una mattina in un giorno ventoso.
Eolo gridava forte attraverso le tue tante bocche cavate nella pietra dura, scalfite dal passaggio di tempi lontani, dallo scalpitio di muli ostinati e stanchi di servire uomini dai volti arcaici e dalle mani ricurve. E passeggiando velocemente attraverso le tue viuzze, facevo attenzione a non incappare nelle insidie delle tue sporgenze pietrose: pietra che sotto il palmo delle mie mani era fredda, a tratti ruvida. E toccavo la vita di genti prima di noi, sfioravo, sudavo per via del loro stesso sole e rabbrividivo allo stesso alito di vento.
È che tu ti mostri per quello che sei, spoglia, nella tua vera natura, indossi il sole, bevi la pioggia e ti copri con un candido mantello di neve. Sei sempre stata giovane e fresca nella tua vecchiaia. Quel giorno, mentre tu rimiravi la tua distesa rocciosa, io osservavo i suoi occhi neri, attraverso cui immagino ancora oggi, il mondo. E ricordo ogni istante il colore della tua terra bruna, arsa, assolata e pensosa, come in attesa. Tu immobile nella tua marmorea faccia, che di notte fai entrare le stelle per illuminarti gli occhi.
Poi mi giungeva al naso un profumo di casa, l’odore all’ingresso del portone dei nonni, di domenica. Mi abbracciavi i sensi e lo stomaco e intanto mi riempivi l’anima, che spesso vaga in un tempo tutto suo. Il tuo sapore non l’ho più cercato perché non l’ho mai trovato: la mia anima sa di profumo di boschi, è intrisa di flutti freschi e ha taciuto all’ombra di un calanco. Ti ho pensato spesso martire di un destino immeritato. Mi hai insegnato cos’è l’esilio: quando ti abbandono, ogni volta è come se fosse la prima.
Ho lasciato pezzi di me sopra e sotto la tua terra. Arida madre, tradizione dei miei geni testardi e amabili, quelli di mia nonna e quelli di mio padre; terra di cuore, di sangue, di polvere e di mani sporche di lavoro, di facce annerite da soli tiepidi. Tornerò e sentirò ancora e ancora il tuo profumo, il tuo soffio carezzerà il mio volto e quello di un nuovo piccolo erede della tua linfa antica.
Benvenuti a Calciano, porta d’ingresso basilisca per il Parco naturale di Gallipoli Cognato piccole Dolomiti lucane. Un nome che non finisce più come la bellezza di questi luoghi. Ho scoperto Calciano per caso, su consiglio di un tour operator mio amico lombardo che, sapendo del mio viaggio a Matera per gli eventi legati alla Capitale europea della Cultura, mi ha consigliato di girare anche un po’ per la provincia. Calciano ti permette di entrare in un mondo naturale non indifferente. Dalla bellezza stupefacente oso dire. Daini e cervi sono gli animali che si possono trovare all’interno di questo parco e, un’altra cosa interessante, è che nelle sue strutture si possono vedere anche il suo museo naturalistico e il suo orto botanico. Quanta bellezza. Calciano però non è solo parco naturale. Ci sono molte tracce artistiche nei suoi monumenti. E anche del mistero. Prendiamo per esempio quello che tutti qui chiamano, in dialetto, “il castello”. Beh, praticamente questi ruderi, molto affascinanti da vedere, in realtà non hanno nulla a che fare con un castello. Probabilmente dovrebbe essere, infatti, una traccia di un antico monastero grecobizantino. Da questo antico monastero, secondo alcuni, prendeva vita l’antica Calciano. Continuando a muoverci da questo lato della strada troviamo ancora altri insediamenti di natura archeologica. Sulla Statale basentana si vedono i resti del vecchio centro abitato chiamato Paese di Pede, la chiesa della Rocca e la cinta di santa Caterina con due piccole grotte scavate nel tufo e affrescate dall’icona di Santa Caterina. Un posto davvero speciale che non avrei mai conosciuto senza l’aiuto di quel mio amico lombardo.
A Girifalco, un piccolo paese del catanzarese, a metà degli anni ’60, uno strampalato postino copia le lettere di cui è portatore. Le legge, le archivia, entra nelle vite degli altri, le analizza e le interiorizza, a volte sembra addirittura perdere i confini di se stesso per entrare a far parte dei personaggi che ha il piacere di incontrare tra le righe delle missive che è chiamato a recapitare. Insieme a lui, protagoniste indiscusse del romanzo sono le coincidenze, gli episodi associativi che forniscono significato ad alcuni momenti, quelli che compensano le delusioni e insegnano a credere nel destino. E’ proprio quando una lettera anonima cade nelle mani del portalettere che la combinazione diventa perfetta, rivelando una costruzione narrativa ineccepibile. Un giallo intorno ad una storia d’amore è il canale di congiunzione tra il protagonista e le coincidenze, in un mix perfetto di ingegno e originalità.
Domenico Dara con “Breve trattato sulle coincidenze” ci insegna a non creder al caso, ma ad aspettare che la vita ci fornisca le risposte agli eventi che credevamo improvvisi “Al postino influenzato dal professore gli sembrava che ogni evento si disponesse secondo un equilibrio: la sosta e la partenza, l’ubbidienza e la rivolta, il perdono e la vendetta, l’umiltà e l’ambizione, l’amore e l’odio, la vita e la morte.”
Gli eventi coincidono, si associano e ci fanno pensare che la bellezza della vita risiede nella compensazione. Anche quando ci sembra impossibile, anche quando la nostra rabbia e le nostre delusioni sono più forti, vale la legge che il piccolo Rocco impara alle scuole elementari: “Quando il bicchiere è colmo, l’acqua non può più fuoriuscire”.