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Mery Casella

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Il 1901 è l’anno in cui il colore blu si impone nei ritratti e nelle opere di Picasso, come avviene in questo Autoritratto. E’ un olio su tela attualmente esposto a Parigi, presso il Musée National Picasso.

Venne eseguito dal suo autore durante il suo secondo soggiorno parigino.
L’artista viveva un periodo difficile anche dal punto di vista economico: il suo autoritratto del 1901, infatti, appare malinconico, triste, pallido con un cappotto abbottonato fino al collo per proteggersi dal freddo.

Volutamente Picasso si ritrae come uno dei personaggi indigenti che dipinge in questo periodo di inizio secolo; il fatto curioso è che a differenza degli altri quadri qui il soggetto non è aiutato da nessuno, né ci sono strumenti del suo lavoro che possano alleviare la tristezza del dipinto.

Potrebbe essere un espediente per mostrare la sua filosofia secondo cui la vita fosse dolore e che la sua radice stessa fosse sofferenza.

Badolato ha un territorio straordinario e poco esplorato, in cui il contesto naturalistico è la vera ricchezza.

Il borgo si trova su una collina che domina la valle del torrente Gallipari nella splendida cornice dell’altopiano delle Serre. Ha origini molto antiche che risalgono al 1080 quando Roberto il Guiscardo fece costruire il castello di Badolato.

Il paese ha nel tempo risentito dei violenti terremoti che lo danneggiarono, ma ancora oggi conserva le caratteristiche stradine strette e tortuose che si intersecano sulle case, l’una sull’altra.

Famoso anche per essere il Paese delle Chiese, a Badolato è possibile visitare 13 chiese tra Badolato Superiore e Badolato Marina.

Qui le lancette del tempo sembrano essersi fermate e permettono a visitatori, ospiti e turisti di calarsi in un atmosfera raccolta e dal sapore antico. La quiete, la serenità che si respira compenetra lo spirito e lo rigenera. Lo scorrere del tempo è impalpabile, segno dell’appartenenza ad una dimensione altra.

In provincia di Crotone sorge, in cima a una rupe, il fascinoso borgo medievale di Caccuri, a breve distanza dal Parco Nazionale della Sila e dal comune di San Giovanni in Fiore.

Caccuri è avvolta da suggestioni romantiche e da un’atmosfera intima, perfetta per viaggi lenti e rilassanti sullo sfondo di castelli e antiche mura.

Si presenta, infatti, ai suoi visitatori come un piccolo labirinto di viuzze splendidamente conservate, che si intrecciano in maniera sinuosa per condurre poi tutte all’antico Castello, vecchio fulcro della vita politica e sociale del paese.

Quasi intoccato dal progresso, Caccuri si nasconde tra colline ed uliveti e le sue abitazioni storiche rivolgono tutte l’ingresso alle tradizionali piazzette, dette rughe, che interrompendo lo scorrere dei vicoli fungevano da luogo di socializzazione in tempi ormai lontani.

Il borgo protegge tra le sue mura tesori religiosi e fortezze difensive, tutti da scoprire passeggiando senza fretta per le vie di questo gioiello calabrese.

David Pelham ha progettato questa copertina, ormai diventata un simbolo, dieci anni dopo la pubblicazione originale del libro, nel 1962.

Essendo Alex DeLarge il protagonista e narratore della sua storia non poteva non essere presente anche nell’immagine di copertina dove lo scorgiamo con indosso la tipica bombetta nera e l’occhio metallico che ricorda uno degli ingranaggi tipici degli orologi analogici.

Secondo Burgess l’uomo è un orango azionato da meccanismi a orologeria e da questo nasce l’associazione fonetica tra la bestia e il frutto (orange).

L’occhio di Alex è un occhio vigile e ricettivo: pronto a scatenarsi all’evenienza.

“Spesso penso che la notte sia più viva e più riccamente colorata del giorno”: con queste parole, Van Gogh annuncia in una lettera al fratello il compimento di una nuova opera, divenuta uno dei suoi capolavori.

La Notte stellata di Van Gogh trova origine in un preciso contesto storico, ossia il ricovero in clinica nel maggio del 1889. La piccola città dipinta è Saint-Rémy-de-Provence, al sud della Francia.

In seguito alla rottura nel dicembre 1888 del rapporto con l’amico Gauguin – atto scatenante il celeberrimo mutilamento dell’orecchio sinistro – il pittore vive uno dei suoi periodi più oscuri e accetta l’internamento.

Le emozioni contrastanti di Van Gogh emergono con forza nella Notte stellata, così come forti sono le pennellate che lo compongono.

Sogno e realtà si nutrono l’uno dell’altro in un rapporto simbiotico le cui componenti spesso sono inscindibili ed egualmente necessarie.

È la fotografia di guerra più celebre nella storia del fotogiornalismo, ancor più degli scatti che testimoniano lo Sbarco in Normandia: è l’immagine de Il miliziano colpito a morte (The Falling Soldier), versione contemporanea della fucilazione del 3 maggio 1808 di Goya.

Pubblicata prima sulla rivista VU e poi su Life nello stesso 1936 in cui venne realizzata, la fotografia scattata durante la Guerra Civile Spagnola è sia quella che ha procurato a Robert Capa la fama internazionale, sia l’oggetto delle maggiori critiche a lui indirizzate.

Lo scatto ritrae un soldato del fronte lealista nell’istante in cui viene raggiunto dal fuoco nemico e sta per cadere a terra esanime. Nella composizione della foto c’è soltanto il soggetto, che tiene in mano il fucile. Sullo sfondo, il paesaggio non fa che risaltare la figura del soldato nell’atto di morire. L’immagine ha un’inquadratura orizzontale.

La foto è statica. Racconta della guerra ma non c’è azione. Eppure quell’istantanea è diventata un’icona, il simbolo della morte violenta che avviene in battaglia. Non c’è alcun segnale che identifica la foto con un luogo, né tantomeno si capisce qualcosa del soldato, per quale fronte combattesse e in quale parte del mondo. E sta proprio in questo la forza dell’immagine, così generica da diventare universale.

Una copia di questa prima edizione del classico di Tolkien è stata venduta in tempi recenti a sessantamila dollari.

Un capolavoro indiscutibile, iconicamente rappresentato da una copertina tricolore.

Il verde pervade la scena a simboleggiare la natura, le vette vertiginose sono colorate di un nero che vira leggermente al blu e il cielo è bianco.

Un copertina decisamente coerente con i paesaggi evocati da questo romanzo degli anni Trenta-Quaranta, che ancora oggi affascina migliaia di lettori.

Il dipinto “Occhi celesti” è apparso la prima volta nella prima edizione di questo famosissimo romanzo.

Nella copertina troviamo, sulla parte superiore il titolo e sulla parte inferiore il nome dell’autore, entrambi stampati a caratteri molto evidenti e di un bianco piuttosto acceso.

Ai piedi della copertina è raffigurato un luna park esplosivo, allegoria dei ruggenti anni Venti e tutto il resto è pervaso da un blu scuro e intenso come la notte.

Il simbolo più evidente è costituito dal volto mimetizzato. Si tratta del volto del dottor T. J. Eckelburg che, nel romanzo, si scorge a più riprese su un grande cartellone pubblicitario posto a metà strada tra New York e West Egg.

Gli occhi incombono come una divinità perduta ma indagatrice, e nel libro questi occhi sono un vero e proprio simbolo della perdita della capacità di vivere dei propri miti e l’ancor maggiore perdita dei propri dèi.

Chi ha letto il grande Gatsby non può non ricordare gli occhi del dottor Eckelburg.

Angoscia, disperazione e smarrimento sono alcuni dei sentimenti negativi ad aver condizionato la vita di Edvard Munch, scandita dalla pittura e dal malessere che tentava di esorcizzare tramite essa.

L’urlo è la somma di tutti questi sentimenti che travalicano il singolo e diventano collettivi: non riguarda, infatti, soltanto Munch ma abbraccia un soggetto molto più grande, ossia l’intera umanità.

La figura al centro – deformata e spettrale – diventa un simulacro dell’essere umano simboleggiato in tutta la sua fragilità e decadenza, come spesso accadeva in virtù del diffuso pessimismo nel movimento “Fin de siècle” che accomunava molte personalità dalla spiccata sensibilità artistica e culturale.

L’urlo emesso dalla figura al centro racchiude quindi tutto il male di vivere che accomuna le persone di ogni luogo e dal quale Munch si sente particolarmente afflitto.

Inoltre, vi è un netto distaccamento tra due gruppi di figure.
Il primo al centro raccoglie il soggetto e il paesaggio circostante, preda di questo urlo disumano e tutti gli oscuri sentimenti che racchiude. L’Uomo e la Natura quindi corrono sugli stessi sconfortanti binari. Le due figure sullo sfondo, invece, non vengono afflitte da quanto sta accadendo e sembrano addirittura dirigersi al di fuori della cornice e, per esteso, del momento.
L’indifferenza delle persone e l’estrema solitudine dei singoli vengono comunicati allo spettatore con un impatto dirompente e inevitabile.

Un uomo cammina in mezzo a una pozzanghera, sullo sfondo un cimitero. Non c’è nulla, nel gesto e nella situazione, che sia particolarmente memorabile.

Eppure, questa foto ci colpisce.

Osserviamo l’uomo che cammina. E’ partito da una scala collocata in mezzo alla pozzanghera e sembra che abbia spiccato un salto. Sembra di fretta, ma non sappiamo da dove viene e dove stia andando. E’ movimento allo stato puro, un’ombra che si sposta. Sullo sfondo un manifesto in cui si può vedere un’altra figura che salta, una sorta di seconda ombra, questa volta nella direzione opposta. Il gioco dell’uomo in primo piano e del manifesto sullo sfondo crea un filo conduttore. Al centro un uomo osserva da dietro le sbarre il cimitero. Staticità, in contrasto col movimento in primo piano.

Cartier Bresson sosteneva l’importanza del “cogliere l’attimo”, cioè eternare quel momento decisivo in cui ciò che avviene e ciò che sentiamo si allineano permettendo di dare un senso a una scena.

E’ una concezione artistica, l’arte nel momento stesso in cui si realizza si stacca dal suo autore: l’artista “sente” che è il momento giusto e tutto prende vita.