Marcello Ravveduto studia la modernizzazione delle mafie. Insegna ditigal public history all’ Università degli Studi di Salerno e Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia. Ha scritto per l’Ediesse Libero Grassi. Storia di un siciliano normale (1997), Le strade della Violenza (2006), con Isaia Sales, per l’ancora del mediterraneo (Premio Napoli per la saggistica), Napoli… Serenata calibro 9. Storia e immagini della camorra tra cinema sceneggiata e neomelodici (2007), con la prefazione di Giuliano Amato, per la Liguori editore. Ha curato l’antologia Strozzateci Tutti (2010) per Aliberti editore ed è responsabile dell’edizione digitale del blog contro le mafie www.strozzatecitutti.info Ha vinto nel 2005 il Premio Nazionale Marcello Torre per l’impegno civile. È presidente dell’associazione antiracket Coordinamento Libero Grassi.
Si è fatto intervistare per LeggoScrivo e ci ha parlato di immaginari, presenti, reali e futuribili, non solo legati al mondo della criminalità organizzata ma anche del lavoro, dell’economia,per riscrivere tutti insieme un’altra storia possibile.
L’8 gennaio è stato il centenario della nascita di Leonardo Sciascia, il 6 l’anniversario dell’assassinio di Piersanti Mattarella, sono passati 40 anni, era il 1980. Lei ritiene che al di là della memoria episodica, legata al singolo avvenimento, quasi a uso e consumo, ci sia voglia e spazio di riscrivere e di ripensare alla storia d’Italia inglobando non soltanto fatti delittuosi, e date commemorative?
I tempi sono maturi per non separare la storia delle mafie da quella d’Italia. Le mafie sono delle strutture di potere che interagiscono con altri pezzi di Paese (imprese, Stato, società civile). Se è vero che la borghesia, il ceto medio è stato protagonista di molti mutamenti, come sostiene Paul Ginsborg, in questo ceto medio vi sono anche i mafiosi, che hanno avuto anche un ruolo economico e politico, oltre che criminale. E la società civile non è avulsa dal contesto, non può dirsi innocente. Indagare in profondità, con rigore scientifico, questi aspetti senza complottismi, perché come diceva Sciascia, se tutto è mafia allora niente è mafia, può essere non soltanto utile, ma anzi, necessario per comprendere i fenomeni.
Nella sua carriera come nella sua bibliografia lei si è sempre occupato dell’immaginario delle mafie, della globalizzazione delle cattive idee nel mondo della musica, dei social e del mondo del cinema, recentemente, di come cioè il brand “mafia” fattura e produce. Ci sa dire se e come è cambiato negli anni?
Se guardiamo indietro ai media, ad esempio, il racconto da loro fornito era pieno di folklore. Per l’importanza che riveste, per aver attentato alle libertà, il racconto della criminalità merita altre attenzioni; e nel cinema di là dagli stereotipi e di alcuni punti fermi, dall’omicidio di Dalla Chiesa e poi dopo dalla fase stragista del ’92 questi stereotipi si sono ribaltati e ne sono stati costruiti degli altri. La mafia, sempre più centrale nel narcotraffico, è rappresentata in modo globalizzato.
Se dovesse usare tre parole per descrivere la sua attività di ricercatore e divulgatore quali sceglierebbe?
Ci sono tre parole che riassumono la mia attività non solo di studio e ricerca e si uniscono in unica dimensione di racconto e sono: coscienza, responsabilità e impegno. Dedicandomi agli aspetti poco conosciuti legati all’immaginario delle mafie, il mio interesse è scaturito da una scelta consapevole. Nel 1992 avevo vent’anni, quello fu un anno di cesura, come il ’68. Emerse una consapevolezza nuova, una coscienza civica che si doveva contrapporre all’elemento eversivo dell’ordine democratico che la criminalità aveva fatto emergere con chiarezza.
Dal suo punto di vista, quello di docente universitario, ritiene che il mondo accademico sia stato dimenticato o comunque accantonato nel dibattito pubblico a causa della pandemia? E dal suo punto di vista ritiene che possa proporre nuovi modelli di speranza, forza, modelli alternativi per una rinascita?
Il mondo accademico ha riflettuto sulla pandemia in modo classico: discutendo fra loro. È anche vero che la società civile non è interessata a queste riflessioni elaborate nella “torre d’avorio”. Bisognerebbe mettere fine al dialogo tra sordi. Negli ultimi anni, con lo sviluppo del digitale, abbiamo assistito alla disintermediazione del sapere, sostenuti dalla convinzione che si può aggirare il sapere e avere google come medico. Quindi, non soltanto la cittadella non viene ascoltata, ma viene attaccata, pensiamo ai no vax. Vi è stata una continua messa in discussione delle scienze naturali ritenute opinabili, ancor più quelle umane.
Concentrandoci ancora sulla situazione attuale e sull’emergenza sanitaria che stiamo vivendo quali vantaggi ritiene abbia ricavato la criminalità organizzata, come si è ingrossato il loro giro di affari?
Il mondo delle mafie è flessibile agli accadimenti internazionali e nazionali. Ha trovato nuovi modi di lucrare in questa situazione. Ma il narcotraffico, principale fonte di guadagno, non si è fermato, non conosce crisi. Esso alimenta investimenti che sono spostati in altri segmenti, come ad esempio imprese che si occupano di contraffazione o legate al mondo dei servizi della sanità, o della grande distribuzione organizzata.
Nella sua Regione di provenienza, la Campania, nei mesi scorsi è esplosa una bomba sociale, sembrerebbe in modo più violento e plateale. Ritiene che la rabbia e il mal contento siano sufficienti a spiegare la situazione ed esaurire le motivazioni all’origine di quelli che vogliamo definire i “moti ” di Napoli o al contrario si tratta di fenomeni più complessi e variegati?
Hai fatto bene a chiamarli moti, perché non si è trattato di una mobilitazione matura che avrebbe prodotto una trasformazione. La rabbia non fa ottenere un risultato. Si è trattato di lamentare problemi endemici della città metropolitana di Napoli esplosi in una rabbia senza soluzione, che fa persistere l’aspetto violento. Vi erano dei settori borderline, legati all’economia sommersa e alla vita precaria, magari fomentati dalla criminalità che però non ha alcun interesse a far accendere i riflettori sulla città, necessita al contrario di silenzio. Se la criminalità fosse stata promotrice dei disordini avrebbe messo ancor di più e per più tempo a soqquadro la città. Esistono invece dati strutturali di marginalità e espedienti di vita al limite della legalità che la pandemia ha svelato in modo ancora più evidente. La mancanza di misure per contrastare tali fenomeni e di scelte istituzionali e politiche a ogni livello fa sfogare una rabbia inutile alla risoluzione di questi problemi.
Un augurio per il futuro e un prospetto, cosa sarà destinato a cambiare e cosa invece probabilmente porteremo con noi ancora a lungo?
Dal modello ibrido dell’intermedialità del digitale non si può tornare indietro. Tornerà il contatto umano, la vicinanza e la prossimità, ma la digitalizzazione della società va accettata, sarà sempre più elemento di normalità. Del resto il digitale permette di costruire più facilmente una rete di contatti che abbatte le barriere geografiche. Il digitale riveste un ruolo fondamentale nella smaterializzazione dell’economia, pensiamo ai riders. Molti mestieri saranno riconvertiti o scompariranno. La mia preoccupazione è che non vi sia coscienza della trasformazione che non appartiene a un futuro distopico e fantascientifico, ma è già in atto. La classe dirigente manca di progettualità, di una visione del futuro, pensa ad aspetti marginali. Nel mondo che sarà la guerra si combatterà con l’intelligenza artificiale, con l’automazione. Per renderci protagonisti del futuro bisogna dirigere il cambiamento non averne paura.